NT/ Agosto 8, 2023/ Raccolte, Preghiere, Meditazioni, Riflessioni, Studi, Padri

San Domenico <<parlava con Dio o parlava di Dio>>, pregava e predicava.
Padre dei predicatori, Domenico tutto di Dio, testimone di vera Carità, esempio vivo di grande santità. Simile al fuoco, sorse un nuovo araldo della salvezza. La sua parola bruciava come fiaccola. Un insegnamento fedele era sulla sua bocca, né c’era falsità sulle sue labbra.

Dalla «Storia dell’Ordine dei Predicatori»
O parlava con Dio, o parlava di Dio Domenico era dotato di grande santità ed era sostenuto sempre da un intenso impeto di fervore divino. Bastava vederlo per rendersi conto di essere di fronte a un privilegiato della grazia. V’era in lui un’ammirabile inalterabilità di carattere, che si turbava solo per solidarietà col dolore altrui. E poiché il cuore gioioso rende sereno il volto, tradiva la placida compostezza dell’uomo interiore con la bontà esterna e la giovialità dell’aspetto. Si dimostrava dappertutto uomo secondo il Vangelo, nelle parole e nelle opere. Durante il giorno nessuno era più socievole, nessuno più affabile con i fratelli e con gli altri. Di notte nessuno era più assiduo e più impegnato nel vegliare e pregare. Era assai parco di parole e, se apriva la bocca, era o per parlare con Dio nella preghiera o per parlare di Dio. Questa era la norma che seguiva e questa pure raccomandava ai fratelli. La grazia che più insistentemente chiedeva a Dio era quella di una carità ardente, che lo spingesse a operare efficacemente alla salvezza degli uomini. Riteneva infatti di poter arrivare a essere membro perfetto del corpo di Cristo solo qualora si fosse dedicato totalmente e con tutte le forze a conquistare anime. Voleva imitare in ciò il Salvatore, offertosi tutto per la nostra salvezza. A questo fine, ispirato da Dio, fondò l’Ordine dei Frati Predicatori, attuando un progetto provvidenziale da lungo accarezzato. Esortava spesso i fratelli, a voce e per lettera, a studiare sempre l’Antico e il Nuovo Testamento. Portava continuamente con sé il vangelo di Matteo e le lettere di san Paolo, e meditava così lungamente queste ultime da arrivare a saperle quasi a memoria. Due o tre volte fu eletto vescovo; ma egli sempre rifiutò, volendo piuttosto vivere con i suoi fratelli in povertà. Conservò illibato sino alla fine lo splendore della sua verginità. Desiderava di essere flagellato, fatto a pezzi e morire per la fede di Cristo. Gregorio IX ebbe a dire di lui: «Conosco un uomo, che seguì in tutto e per tutto il modo di vivere degli apostoli; non v’è dubbio che egli in cielo sia associato alla loro gloria».
(Dalla «Storia dell’Ordine dei Predicatori», de Principiis O.P:; Acta canoniz. sancti Dominici; Monumenta O.P. Mist. 16, Romae 1935, pp. 30 ss., 146-147)

Missione di San Domenico nella Chiesa «Ecco il grande Sacerdote, che mentre visse, rifondò la casa e ai suoi tempi fu restauratore del tempio». E’ questi, o fratelli, il beato Domenico, di cui celebriamo oggi la festa, che insieme col beato Francesco rinnovò la Chiesa cadente. «Ecco», dice, «il grande Sacerdote». Fratelli, notate le parole e osservate i misteri. I sacerdoti son molti e i sacerdoti son pochi. Ed anche i sacerdoti buoni non tutti sono grandi. Poiché il sacerdote deve illuminare, spettando a lui il predicare, E come è dunque sacerdote chi non sa illuminare? Come, chi non è illuminato? Come, chi è cattivo? Il beato Domenico era santo e per dottrina illuminato. Qualcuno dirà: io imparo a predicar santamente. Oggidì i nostri sacerdoti (essendo ufficio di grande onore quello della predicazione) vogliono tutti predicare, e cercano collezioni di sermoni ed altro, dicendo di voler con questo edificare il popolo. Io farò qualche poco di bene nella Chiesa, dice costui. Ma ecco ciò che segue: «Nella sua vita rifondò la casa». La vita peccatrice non è vita, ma morte. Intendi dunque: nella vita sua santa, cioè colla vita e col buon esempio. Pregate, pregate il Signore che mandi buoni e santi sacerdoti, che sostengano la casa, cioè la Chiesa tutta, che minaccia una grande rovina… «E nei suoi giorni fu restauratore del tempio. Egli parimente fondò l’altezza del tempio». Questa altezza del tempio è lo stato perfetto di alcuni che sono nel clero, cioè dei religiosi. Onde il Vescovo (dev’essere perfetto, perché è in stato perfetto). I religiosi sono in stato di perfezione, perché pronunziano i voti e si obbligano a cose che conducono a perfezione di vita. E tra i religiosi, ancora noi siamo dell’Ordine de’ Predicatori. Quando debbano esser perfetti i predicatori, consideratelo da quanto dice: «Alte mura attorno al tempio». Ciascuno, in ogni arte, considera il nome di essa, e si vergogna se egli non agisca in conformità di quel nome; come, ad esempio, il soldato se è timoroso, se fugge. Considerate dunque voi stessi e il nome vostro. «Si acquistò gloria vivendo in mezzo alla gente». Poiché del beato Domenico si dice che la sua conversazione fu ilare sempre e graziosa; e che perciò egli era amato con affetto mirabile da tutti. Poiché egli volle avere i conventi nelle città, e volle conversare cogli uomini per poter giovare a tutti; ed occupava la giornata a vantaggio del prossimo e dava la notte a Dio: predicava la carità che dilata il cuore e rende tutto più facile. «Molto largo è il tuo comandamento», dice il salmo, ed ancora: «Io corro la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore» (Sal 118, 32), ond’è che interrogato da un tale ove egli trovasse tante belle esposizioni, rispose: Nel libro della carità. E voi, o fratelli, che volete apprendere le Scritture, che volete predicare: abbiate la carità ed essa vi ammaestrerà. Abbi la carità e intenderai la carità. E perché tutto egli dedito alla carità del prossimo per condurlo sulla retta strada coll’orazione, colla predicazione o coll’esempio, e a tale scopo offrì se stesso olocausto a Dio in odore di soavità, perciò segue: «Come incenso che brucia nel fuoco», cioè nel fuoco dello Spirito Santo, in quello della carità del prossimo e in quello delle tribolazioni: tutte queste cose salivano al cospetto di Dio come soavissimo odore. E finalmente egli divenne tutto carità e sapienza, tutto adorno di virtù.

(Dalle «Prediche» di fra Gerolamo Savonarola, sacerdote, Ed. L. Ferretti, in «Memorie Domenicane». XXVII, 1910. pp. 381-401)

Sotto i piedi dei miei fratelli

Domenico, «sentendosi prossimo alla morte, chiamò frate Ventura e i fratelli. Questi si recò da lui insieme con una ventina di fratelli e, quando gli furono tutti intorno, cominciò ad ammonirli». Poi Domenico si mise a pregare; parafrasando la preghiera sacerdotale di Gesù, affidò la sua comunità al Signore. Come i fratelli iniziarono a recitare la preghiera dei morenti, Domenico ordinò loro di attendere. «Allora il priore gli disse: “Padre, voi sapete in quale desolazione e in quale tristezza ci lasciate: ricordatevi di noi e pregate per noi presso il Signore”. Frate Domenico levò gli occhi e le mani verso il cielo e disse: “Padre santo, tu lo sai, ho cercato con tutto il cuore di fare la tua volontà, e quelli che tu mi hai dato io li ho custoditi e conservati. Ora te li consegno a mia volta: conservali e custodiscili”. Anche nell’atto della sua morte Domenico resta il fondatore, colui che si fa carico dei fratelli. (…) Nella Chiesa era apparso assai presto l’uso di farsi seppellire accanto al corpo dei martiri. Essere seppellito accanto al corpo di un santo costituisce una promessa di «buona risurrezione». Molti racconti di morte attestano questa consuetudine universale di cui possediamo tuttora evidenti testimonianze: lapidi tombali nelle cattedrali e cimiteri attorno alle chiese di campagna. Domenico muore a Bologna. Durante la malattia si trova in un monastero; temendo di esservi sepolto, chiede di essere riportato dai suoi frati a Bologna. Gli vien chiesto quale luogo abbia scelto per la propria sepoltura. Non dice, come senz’altro si attendevano alcuni: «accanto a tale o talaltro santo», oppure «presso tale altare», bensì: «sotto i piedi dei miei fratelli». Alcuni biografi di Domenico hanno visto in questa frase una dimostrazione di umiltà, ed è così che abitualmente si è inteso questo testo. Ma è necessario andare più lontano. Per la propria sepoltura Domenico, come i suoi predecessori o i suoi contemporanei, sceglie, sì, un luogo santo, ma per lui il luogo santo per eccellenza non sono le reliquie, bensì la comunità. Perciò è là, vicino ai suoi fratelli, sotto i loro piedi, servitore, che attenderà al sicuro la risurrezione dell’ultimo giorno. I fratelli l’hanno percepito e hanno custodito il ricordo di questa frase, così in sintonia con tutta la vita di Domenico e con il suo insegnamento: nessuno fu uomo di comunione più di lui.

(J.-R. Bouchet, Sant Dominique, 1988 trad.it a cura O.P) 

L’orazione del santo Padre Domenico. Il primo modo consisteva nell’ umiliarsi dinanzi all’altare, come se Cristo, che nell’altare è signifcato, fosse li presente realmente e personalmente, non soltanto in simbolo. E ciò egli faceva, secondo quel detto di Giuditta: «Degli umili e dei mansueti Ti fu sempre gradita la supplica» (Gdt 9,16); o anche secondo quest’altre parole: «lo non sono degno che Tu entri sotto il mio tetto» (Mt 8, 8), «fino ad ora, o Signore, mi sono prostrato dinnanzi a Te» (Sal 146,6). Fu del resto per l’umiltà che la cananea ed il figliulo prodigo ottennero ciò che domandavano. Dopo aver pregato in tal modo, il santo Padre riassumeva la posizione eretta, poi inclinava il capo e fissando con umiltà il Cristo, suo vero capo, confrontava la di Lui eccellenza con la propria bassezza e tutto si scioglieva nell’ossequio a Lui. Egli insegnava ai frati a fare altrettanto quando passavano davanti al Crocefisso, affinché Cristo che tanto si è umiliato per noi, li vedesse umiliati davanti alla sua Maestà. Analogo segno di umiltà egli lo esigeva dai frati in onore di tutta la Trinità, quando recitavano solennemente il versetto: «Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo». In seguito san Domenico, davanti all’altare e nel Capitolo, fissava lo sguardo sul Crocefisso, contemplandolo con una incomparabile penetrazione, e davanti a Lui si genufletteva più volte. Succedeva così, che qualche volta, da dopo Compieta fino a mezzanotte, ora si alzava, ora si metteva in ginocchio, a imitazione dell’apostolo Giacomo e di quel lebbroso del Vangelo, che genuflesso diceva: «Signore, se vuoi, puoi mondarmi» (Lc 5,12; Mt 8,2). E in ginocchio come Stefano, gridava a gran voce: «Non imputar loro questo peccato» (At 7,59). Sorgeva allora nel santo Padre Domenico un sentimento di grande fiducia nella misericordia di Dio nei suoi riguardi, in quelli di tutti i peccatori e per la perseveranza dei frati più giovani ch’egli inviava a predicare. Alle volte non riusciva a trattenere la voce, sicché i frati lo sentivano dire: «E’ verso di Te che io grido, o Signore; non restar sordo alla mia voce, non essere silenzioso con me,…» (Sal 27,1), e altre simili parole della Sacra Scrittura. Altre volte, invece, parlava in cuor suo e la sua voce non si udiva affatto: allora restava in ginocchio, qualche volta anche per molto tempo, come in uno stato di stupore. Qualche altra volta, in tale atteggiamento sembrava che il suo intelletto penetrasse il cielo e, sommerso da una gioia celestiale, asciugava le lacrime che gli scorrevano sul volto. Si accendeva allora tutto di gran desiderio, come un assetato che giunge a una fonte, come un pellegrino quando ormai è vicino alla patria. E la sua animazione e il suo ardore crescevano, come lo si poteva arguire dall’agilità dei suoi movimenti che conservavano, però, tutta la loro compostezza, sia quando si inginocchiava, che quando si rialzava. Era talmente abituato a genuflettersi che anche in viaggio e negli ospizi, e perfino lungo la strada, nonostante la fatica del cammino, mentre gli altri dormivano o si riposavano, lui tornava alle sue genuflessioni, come se si trattasse di una sua arte o mestiere speciale. E con questo suo esempio, più col fare che col dire, insegnava ai frati questa maniera di pregare.

(Da «I nove modi di pregare di san Domenico, Ed. I. Taurisano, ASOP. XV. 1922. pp. 96-97, 99-100)  Simile al fuoco, sorse un nuovo araldo della salvezza. La sua parola bruciava come fiaccola.

simbolo ordine predicatori domenicani

Simbolo OP: Croce con gigli nella estremità dei bracci o gigliata; e il motto: Lodare, benedire, predicare

(San Domenico ha promosso e divulgato la preghiera del Rosario, come lode alla Santissima Vergine Maria e come un invito a meditare i misteri di Cristo, in compagnia della Madonna, che è stata associata in modo speciale all’Incarnazione, Passione e Resurrezione del Suo Figlio).

San Domenico, ispirato dallo Spirito Santo, istruito dalla Santa Vergine e dalla sua personale esperienza, fin che visse predicò il Santo Rosario con l’esempio e con la parola, nelle città e nelle campagne, ai grandi e ai piccoli, ai sapienti e agli ignoranti, ai cattolici ed agli eretici. Il Santo Rosario, ch’egli recitava ogni giorno, era la sua preparazione alla predica e il suo appuntamento dopo la predicazione.
Un giorno – ricorreva la festa di san Giovanni Evangelista – il santo stava in una cappella dietro l’altare maggiore della cattedrale di Notre-Dame a Parigi e recitava il Santo Rosario per prepararsi a predicare. La Santa Vergine gli apparve e disse: «Domenico, la predica che hai preparato è buona, ma migliore è questa che ti presento». San Domenico riceve dalle mani di Lei il libro in cui è scritto il discorso, lo legge lo apprezza, lo fa suo e ringrazia la Vergine Santa. All’ora della predica sale sul pulpito e, dopo avere detto in lode di san Giovanni Evangelista soltanto ch’egli aveva meritato di essere il custode della Regina del Cielo, dichiara all’illustre uditorio dei grandi e dei dottori abituati a discorsi singolari e forbiti, che avrebbe continuato non con le dotte parole della sapienza umana, ma con la semplicità e la forza dello Spirito Santo. E li intrattenne sul Rosario spiegando loro, parola per parola, come avrebbe fatto parlando ai fanciulli, il Saluto angelico, servendosi dei pensieri e degli argomenti molto semplici letti sul foglio che gli era stato consegnato dalla Madonna).
Dal  tempo  in cui  San  Domenico  stabilì  questa  devozione  fino  all’anno  1460, quando  il  Beato  Alano  de  la  Roche  la  rinnovò  per  ordine  del  Cielo,  il Rosario  fu  chiamato  Salterio  di Gesù  e  della  Santissima  Vergine,  per  analogia  con il Salterio  di Davide  che  contiene  150  salmi –  lo  stesso  numero  delle  salutazioni  angeliche  che  compongono  il  Rosario, è   conforme ad una solida e venerabile tradizione secondo la quale la predicazione del Rosario fu raccomandata personalmente da Nostra Signora a San Domenico).
( Beato Alano, Salterio di Cristo e di Maria)

Lo stesso beato Alano della Rupe racconta di parecchie altre apparizioni di Nostro Signore e della Vergine santa a san Domenico per stimolarlo ed infervorarlo sempre più a predicare il santo Rosario perché il peccato sia distrutto e i peccatori e gli eretici si convertano.

Ad un certo punto il Cartagena scrive: «Il beato Alano racconta che la Madonna gli rivelò come suo Figlio Gesù Cristo era apparso a san Domenico, e gli aveva detto: «Domenico, io mi compiaccio nel constatare che non ti appoggi sulla tua personale sapienza, che lavori con umiltà alla salvezza delle anime e non cerchi di piacere agli uomini vani. Molti predicatori, invece, usano fin dal principio tuonare contro i peccati più gravi, ignorando che prima di somministrare un rimedio disgustoso bisogna disporre il malato a riceverlo e a profittarne. Per questo devono innanzitutto esortare gli uditori ad amare la preghiera e specialmente il salterio angelico. Se tutti incominceranno a pregare così, senza dubbio la divina clemenza sarà propizia a quanti persevereranno. Predica dunque il Santo Rosario».

Il Rosario: le origini di questa preghiera
La parola “rosario” deriva da un’usanza medioevale che consisteva nel mettere una corona di rose sulle statue della Vergine; queste rose erano simbolo delle preghiere “belle” e “profumate” rivolte a Maria.
Così nacque l’idea di utilizzare una collana di grani (la corona) per guidare la meditazione.
Nel XIII secolo, i monaci dell’Ordine cistercense elaborarono, a partire da questa collana, una nuova preghiera che chiamarono rosario, dato che la comparavano a una corona di rose mistiche offerte alla Vergine.
Questa devozione fu resa popolare da San Domenico, il quale, secondo la tradizione, ricevette nel 1214 il primo rosario dalla Vergine Maria, nella prima di una serie di apparizioni, come un mezzo per la conversione dei non credenti e dei peccatori.
Prima di San Domenico, era pratica comune la recita dei “rosari di Padre nostro”, che richiedevano la recita del Padre nostrosecondo il numero di grani di una collana.
In realtà, l’abitudine di contare le preghiere con una cordicella annodata era già diffusa dal III e IV secolo, ai tempi dei monaci del deserto che vivevano da eremiti. Questi strumenti si chiamarono poi, nel Medioevo, “paternoster”. L’Ave Maria, nata nel VII secolo (ma già contenuta nei Vangeli per la prima parte), si affermò in tutto il mondo cristiano intorno all’anno Mille. Il movimento circolare che si fa sgranando il rosario simboleggia il percorso spirituale del cristiano verso Dio: un lungo ritorno.
Nel 1571, anno della battaglia di Lepanto, papa Pio V chiese alla cristianità di pregare con il rosario per chiedere la liberazione dalla minaccia turco-ottomana. La vittoria della flotta cristiana, avvenuta il 7 ottobre, venne attribuita all’intercessione della Vergine Maria, invocata con il Rosario.
In seguito a ciò il papa introdusse nel calendario liturgico per quello stesso giorno la festa della Madonna della Vittoria, che poi il suo successore, papa Gregorio XIII, trasformò in festa della Madonna del Rosario. Sempre nel XVI secolo si ha la fissazione definitiva dell’ultima parte dell’Ave Maria, che nella parte finale aveva numerose varianti locali.
Altri personaggi che hanno contribuito alla diffusione di questa preghiera sono il beato Alano della Rupe con il suo Salterio di Cristo e di Maria del 1478, san Luigi Maria Grignion de Montfort con il suo libro Il segreto ammirabile del Santo Rosario, e il beato Bartolo Longo (fondatore del Santuario e delle opere di carità di Pompei dove è venerata la Madonna del Santo Rosario:” Santa Maria che consegna la corona a S. Caterina e Gesù Bambino che lo consegna a S.Domenico) considerato l'”Apostolo del Santo Rosario”. Un altro impulso si ebbe nei secoli XIX e XX con le apparizioni di Maria a Lourdes e a Fatima.
+ I NOVE MODI DI PREGARE DI SAN DOMENICO
Venite, prostrati adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati.
+Salmo 94,6
“In piedi profondamente inchinato, si umiliava dinanzi all’altare, come se Cristo…fosse lì realmente e personalmente… Dopo aver pregato in tal modo riassumeva la posizione eretta, poi inclinava il capo e fissando con umiltà il Cristo, suo vero capo, confrontava la di lui eccellenza con la propria bassezza…”
Questa maniera di inclinare profondamente il capo era il punto di partenza delle sue devozioni. Analogo segno di umiltà egli lo esigeva dai frati in onore di tutta la Trinità quando recitavano solennemente il «Gloria…»
Io sono prostrato nella polvere, dammi vita secondo la tua parola.
Salmo 119, 25
“Spesso pregava completamente disteso con la faccia contro la terra (=venia). Eccitava allora nel suo cuore sentimenti di compunzione, richiamando alla memoria e dicendo a voce alta «O Dio, abbi pietà di me che sono un peccatore»… e piangeva emettendo gemiti…”
Talvolta, volendo insegnare ai frati con quanta riverenza dovessero pregare  diceva loro: «…Abbiamo trovato l’Uomo-Dio con Maria sua ancella. Perciò venite adoriamolo e prostriamoci piangendo davanti al Signore Dio che ci ha creati». E invitava anche i più giovani a piangere per i peccatori.
Sia benedetto Dio che non ha respinto  la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia.
+Salmo 66, 20
“Per questo motivo si rialzava da terra e con una catena di ferro si dava la disciplina”.
Da questo esempio del Padre venne nell’Ordine la disposizione che tutti i frati nei giorni feriali la sera, dopo Compieta, ricevessero a dorso nudo la disciplina con verghe di legno, recitando devotamente il Miserere o il De profundis per le colpe proprie e per quelle dei benefattori.”
I nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi.
+Salmo 123,2
“In seguito davanti all’altare o nel Capitolo egli (in piedi e a mani aperte) fissava lo sguardo nel Crocifisso, contemplandolo con incomparabile penetrazione e davanti a lui si genufletteva più volte. Succedeva così che, qualche volta, da dopo Compieta fino a mezzanotte, ora si alzava, ora si metteva in ginocchio…Mettendosi in ginocchio gridava per i peccatori: «Signore non imputar loro i peccati».
Sorgeva allora in lui un sentimento di grande fiducia nella misericordia di Dio nei suoi riguardi e in quelli di tutti i peccatori e per la conservazione dei suoi frati…”
Alzate le mani verso il Tempio e benedite il Signore
+Salmo 134, 2
“Talvolta si metteva davanti all’altare in posizione ben eretta, senza appoggiarsi né sostenersi, con le mani aperte sul petto come (a sostenere) un libro. E restava in piedi così con grande riverenza e devozione, come leggendo alla presenza di Dio. Sembrava meditasse le parole di Dio, ripetendole dolcemente a se stesso. Talvolta giungeva le mani, tenendole fortemente unite davanti agli occhi e tutto chiudendosi in se stesso. Tal’altra le alzava all’altezza delle spalle (come fa il sacerdote nella Messa), quasi volesse tendere l’orecchio per udire meglio qualcosa….Avresti creduto vedere un profeta intrattenersi con un angelo o con Dio…”
Il Signore è vicino a quanti lo invocano a quanti lo cercano con cuore sincero.
+Salmo 145, 18
“Il santo padre Domenico alle volte fu visto pregare anche con le mani e le braccia completamente aperte e stese a forma di croce, mentre col corpo stava il più possibile eretto.
Questa forma di preghiera non era frequente, ma egli vi aveva fatto ricorso quando, per divina ispirazione, sapeva che in virtù della sua preghiera sarebbe avvenuto  qualcosa di grande e di meraviglioso.
Così a Roma quando risuscitò il giovane che era morto cadendo da cavallo; così a Tolosa quando salvò circa quaranta pellegrini inglesi che stavano annegando nel fiume; così durante la celebrazione di una Messa.”
Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera.
+Salmo 141, 2
“Spesso lo si vedeva, mentre pregava, protendersi tutto verso il cielo, come una freccia scoccata dritta in alto: elevava le mani tenendole tese sopra il capo, ora congiunte ora un po’ aperte come a ricevere qualcosa. Era rapito fuori di sé. Quando tornava in sé era come se venisse da lontano e lo avresti detto un pellegrino…”
Sul rotolo del libro è di me è scritto che io faccia il tuo volere.
+Salmo 40, 9
“Il santo padre Domenico aveva anche un altro modo di pregare, assai bello, devoto e simpatico…Questo buon padre, ammirevole per la sua sobrietà e per lo spirito di devozione attinto nelle divine parole che si erano cantate in coro…, subito si ritirava  in un luogo solitario…per leggere o pregare, raccolto in sé stesso e fissato in Dio. Si sedeva tranquillamente e, dopo essersi fatto il segno della croce, apriva un libro e leggeva. E mentre leggeva così in solitudine, faceva atti di riverenza vero il suo libro, chinandosi spesso a baciarlo, soprattutto se si trattava del Vangelo o vi leggeva riportate le parole proferite da Cristo. Poi…si alzava alquanto, con riverenza, e inclinava il capo. Quindi di nuovo calmo e tranquillo riprendeva a leggere.”
Il Signore fa sicuri i passi dell’uomo e segue con amore il suo cammino.
+Salmo 37, 23
“Quando a piedi viaggiava, sovente si separava dagli altri e pregava da solo. Si accendeva allora come fuoco ardente”. Da altre fonti sappiamo che “ruminava dei salmi”  cantava l’ «Ave maris stella» o il «Veni creator spiritus»…”.
Avvicinandosi ad un paese pregava per i suoi abitanti. “Aveva l’abitudine di passare assai spesso la notte in chiesa, a tal punto che si pensava che mai o raramente egli usasse un letto…Pregava e prolungava le sue veglie. Quando poi sopravveniva la stanchezza, vinto dal bisogno del sonno, appoggiava la testa all’altare … e riposava un momento. Poi si risvegliava e riprendeva la sua fervorosa preghiera.”
(Il santo non ha lasciato opere scritte sulla preghiera, ma la tradizione domenicana ha raccolto quanto da lui esposto oralmente ai primi religiosi nell’opera «Le nove maniere di pregare di san Domenico», composta tra il 1260 e il 1288 da un autore anonimo).
[Cf. I nove modi di pregare di san Domenico, (Ed. I. Taurisano, ASOP. XV), 1922. pp. 96-97, 99-100; cf. Ravotti J- Pierre, San Domenico Maestro di preghiera, 2004; cf. Lippini (ed.), Le Nove maniere di pregare di S. Domenico].

Preghiera – Inno
(Domenico, uomo tutto di Dio)
«Il sogno che annunciava la tua nascita, premoniva la tua fedeltà al Vangelo, come fuoco che arde nella notte, che è custodito da ottocento anni.»
«La stella che brillò sulla tua fronte è la santità che segna la tua vita, è quell’astro che guida il tuo Ordine, è come àncora in mare tempestoso».
«La Carità in te opera, e trasforma pelli morte in pelle viva, porta frutto ai confini del mondo e ti arricchisce della stola regale».
«Il grano ammassato marcisce, seminato, invece, porta molto frutto: inviasti i tuoi fratelli nel mondo per seminare il Verbo eterno del Padre».
«Tu, seme germogliante di vita che Dio dona al creato, mendicando porti il Figlio unigenito e doni gioia eternità e vita».
«Tu sei radice feconda, dalla quale germoglia il santo ordine, un giardino odoroso e tutto largo, il cui frutto è la croce di Cristo».
«Sei tu che parlavi con Dio e l’Altissimo ha cura di te, ma parlavi anche cdi Dio e dal tuo volto s’irradia la luce».
«Ravviva ogni virtù il Rosario e mantiene la Carità nell’uomo. Predicando insegnasti la preghiera, che è rivolta alla “Madre di grazia”».
«Vedesti nel tuo sogno Maria, “aiuto dei cristiani”, che accoglieva tutti i tuoi figli sotto il suo manto di misericordia e amore».
«Sia lode al Dio, trino ed unico, al Padre, al Figlio e al Santo Spirito: innalzasti la tua umile prece che esaudisce la preghiera dei credenti».

Il Crocifisso di San Domenico ad Arezzo è una croce sagomata e dipinta a tempera e oro su tavola; è la prima opera che gli storici sono concordi nell’attribuire a Cimabue.

Breve biografia di San Domenico di Guzman tratta da: “Il secondo grande libro dei ritratti di santi” (1173-75 ca. +6 agosto 1221, Festa 8 agosto; per l’ordine dei predicatori il 6 agosto).

Della personalità di Domenico di Guzmán è stato detto che «è tutta nascosta nella luce». Non sono molte le notizie biografiche sulla sua persona e quasi nulla è rimasto dei suoi scritti; ma egli risplende tutto nascosto nella sua opera: l’Ordine dei Predicatori, fondato agli inizi del Duecento. «Se noi potessimo levare sulle opere di Dio uno sguardo unico e puro», ha scritto G. Bernanos in un breve profilo del nostro santo, «quest’Ordine ci apparirebbe come la carità stessa di san Domenico realizzata nello spazio e nel tempo, come se la sua preghiera fosse diventata visibile». E una santa terziaria domenicana, Caterina da Siena, si sentirà dire da Gesù: «L’istituto religioso del mio figlio Domenico è un delizioso giardino, gioioso e profumato». Eppure, quando Domenico morì, benché fosse Padre e Maestro di un nuovo Ordine religioso, già diffuso in tutta Europa, non possedeva né una cella né un abito religioso decente. Per tutta la vita egli si era concepito come «Pellegrino di Cristo», e un pellegrino è sempre esule, sempre straniero e privo del necessario. E anche se la sua famiglia d’origine era certamente nobiliare, Domenico non ci lasciò quasi nessun ricordo al riguardo. Sappiamo qualcosa soltanto della bontà della mamma, Giovanna, che la tradizione ha considerato e venerato come santa; e santi sono considerati i due fratelli di Domenico, divenuti ambedue sacerdoti. Il biografo antico racconta molti episodi simbolici e prodigiosi della sua infanzia, ma appartengono tutti ad un genere letterario allora molto diffuso – infatti gli stessi episodi vengono narrati per santi diversi – con l’unico intento di annunciare le future grandezze e il destino che Dio già assegnava al fanciullo. Il prodigio, che segnerà l’iconografia (basta pensare al bellissimo ritratto del Beato Angelico), è quello della stella che la madre vede splendere sulla fronte del fanciullo. Più interessante per noi, dal punto di vista pedagogico, è invece la citazione classica (del poeta latino Orazio) con cui fautore commenta la precoce educazione cristiana di Domenico, affidato ad uno zio sacerdote verso i sci-sette anni: «Quando si versa del profumo in un vaso di argilla nuovo, esso ne rimane così impregnato che la fragranza non va più via» [1]. L’espressione rievoca tutto il sistema pedagogico del tempo, quando un bambino imparava il latino esercitandosi sul salterio, in modo che studio e preghiera si fondessero assieme naturalmente, impregnassero il fanciullo e lo plasmassero. Con lo stesso ritmo Domenico percorse tutto il curricolo degli studi, che lo condusse fino al magistero in teologia. Era un tipo serio, piuttosto schivo, che si distingueva dalla massa per la sua dedizione al sapere e alla preghiera, e per un’evidente purezza e sobrietà di vita, piuttosto rare anche a quel tempo. Aveva, però, un cuore affettuosissimo, che lo portava spesso a commuoversi soprattutto nella preghiera. Più passeranno gli anni e più gli sarà difficile celebrare la messa senza piangere, e nel pianto si concluderanno molte sue preghiere, quasi tutte protese alla conversione dei poveri peccatori. Un giorno diranno di lui che «tutti amava e da tutti era amato», e un amico assicurerà che egli usava «estendere la sua carità anche ai dannati», tanto lo travolgeva il suo cuore. Ed era una carità fattiva che un giorno lo spinse perfino ad offrirsi in schiavitù ai musulmani pur di liberare un ragazzo che non poteva pagare il riscatto. Ricordiamo che nella Spagna di allora non erano rare le scorrerie dei mori che rapinavano, compravano e vendevano cristiani. La stessa carità gli divampò nel cuore in occasione di una terribile carestia che decimò la Spagna. Fu allora che «scosso dalla miseria dei poveri e divorato dalla compassione, risolvette in un solo gesto di obbedire ai consigli evangelici e di alleviare, nell’unico modo che gli era possibile, la miseria di coloro che morivano di fame. Vendette dunque i libri che possedeva – libri per altro a lui indispensabili – e vendette anche le sue suppellettili e distribuì tutto ai poveri». L’espressione «vendere i libri» non aveva allora il senso con cui oggi suona ai nostri orecchi: significava rinunciare a codici preziosi e introvabili, disfarsi di una biblioteca di pergamene messe assieme in anni di pazienti ricerche e annotate in anni di studio faticoso, rinunciare ad un patrimonio che era quasi impossibile poi ricostruire… Secondo un testimone, Domenico avrebbe spiegato così il suo gesto: «Non posso studiare su pelli morte» – tali erano le pergamene che si usavano allora – «mentre delle persone vive muoiono di fame». La frase è costruita ad effetto, ma rende bene la sensibilità dello studioso che crede in ciò che impara. Acquistò così una tal fama di uomo di Dio che il Capitolo della cattedrale di Osma gli offrì un posto di canonico: non era un invito onorifico, ma una chiamata a partecipare alla riforma della Chiesa, a partire da un luogo carico di fervore e di progetti. Ad Osma, il vescovo aveva convinto i suoi canonici a vivere con lui secondo la regola di sant’Agostino: erano Dodici, come un collegio apostolico, stretti attorno al santo vescovo Diego che faceva le parti di Gesù, vivendo in comunione e vera dedizione al culto di Dio. Domenico vi giunse a ventiquattro anni, attratto da quella forma di vita che allora era quasi totalmente impregnata di studio e di preghiera, una vita quasi esclusivamente contemplativa. Il biografo dice che, in questo periodo, Domenico era tutto occupato «ad assaporare l’intima dolcezza» di ciò che prima aveva studiato. Aveva, dunque, dimenticato i poveri e le necessità apostoliche della Chiesa? No, ma li stava raggiungendo – come sempre bisogna fare – prima di tutto dalla parte del cuore: quello di Dio, quello della Chiesa, e il suo stesso cuore adorante. Per l’apostolato attendeva l’Ordinazione sacerdotale che gli venne conferita a venticinque anni. Ma il primo «viaggio» in cui, sui trent’anni, si trovò coinvolto non aveva apparentemente nulla di veramente apostolico. Per incarico del re, doveva accompagnare il suo vescovo tino alla lontana Scandinavia, per prelevarvi una fanciulla destinata sposa all’erede di Castiglia. Domenico si trovò così ad attraversare l’Europa e a rendersi personalmente conto della situazione della cristianità. Appena al di là dei Pirenei, lo colpì la diffusione dell’eresia catara, un movimento ereticale che allora contava circa quattromila membri a pieno titolo (detti «perfetti») e qualche centinaio di migliaia di «credenti», e che aveva ormai una sua propria gerarchia episcopale. La Champagne, il regno di Francia, le Fiandre, l’Inghilterra, la Lombardia e l’Italia del sud ne erano stati infettati. Nell’albigese – il territorio percorso da Domenico – quella «nuova chiesa» aveva una struttura compatta e austera che attraeva l’ammirazione anche di coloro che erano rimasti cattolici. Il clero, in particolare, sembrava ben più affidabile di quello cattolico, non di rado corrotto. Tanta austerità si ammantava, però, di un irridente disprezzo per la Chiesa, di reticenze nei riguardi del battesimo e dell’eucaristia, di avversione al segno della Croce. Al fondo c’era un irrimediabile dualismo che vedeva tutta la realtà dominata da due principi radicalmente opposti: Dio e il diavolo, il bene e il male, lo spirito e la materia. A sconvolgere Domenico era soprattutto il fatto che una tale eresia veniva accolta dal popolo non per quello che realmente diceva, ma per quello che tanti buoni cristiani giustamente desideravano. L’odio verso la materia era considerato come penitenza cristiana; l’odio al corpo era considerato come amore alla purezza; l’odio verso le realtà mondane era scambiato con la fiducia nella Provvidenza. Insomma: la Chiesa del tempo – il clero in particolare – aveva davvero bisogno di riforma; ma la riforma doveva partire da un nuovo amore a Cristo, da un nuovo amore alla sua Chiesa, da un nuovo amore al mondo da Lui redento, e non da una amarezza radicale e negativa verso tutto ciò che era corporeo in nome di un gelido spiritualismo. Lo spiritualismo attraeva perché sembrava un rinnovamento, mentre in realtà era una disincarnazione, tanto che nel suo fondo esso non sentiva nessun bisogno della persona di Cristo, ma solo di certi suoi insegnamenti morali! Un vescovo o un prete cataro non facevano molta fatica a mostrare la loro superiorità culturale e morale sui sacerdoti cattolici. Si noti che questa austerità non scoraggiava affatto gli aderenti alla setta; i catari, infatti, esigevano la purezza dei costumi e la povertà solo dai pochi perfetti, ma concedevano tutto ai loro credenti. Per essere considerati tali, i principi non dovevano affatto abbandonare i loro costumi licenziosi o la loro avidità. Se poi il matrimonio era un male in se stesso, era senz’altro meglio la fornicazione molteplice e passeggera. Così principi e popolino potevano aderire alla setta senza preoccupazioni, dando solo sfogo al loro feroce anticattolicesimo. Potevano tranquillamente inveire contro la Chiesa romana, divenuta «spelonca di ladri» e «prostituta», senza rinunciare ai propri furti e alle proprie prostituzioni, dato che i credenti erano garantiti (anche per quanto concerneva la salvezza finale) dai pochi perfetti. Qualche dibattito sulla questione, Domenico lo ebbe già durante il viaggio, in incontri occasionali; così, per la prima volta, potò mettere a frutto i suoi studi nella «grazia della predicazione». Passò una notte intera a discutere con un albergatore di Tolosa, e si rese conto di quanto l’eresia si fosse ormai radicata: quel suo interlocutore, ad esempio, benché fosse un laico, si mostrava davvero preparato, e saltava agli occhi lo stridente contrasto con l’abietta ignoranza di tantissimi preti del tempo. Quel primo viaggio verso le lontane terre del Nord si concluse con un matrimonio per procura. E così l’anno dopo bisognò rimettersi in strada, con un corteo ancora più fastoso, per condurre la principessa in persona. Ma tutto sfociò in un nulla di fatto: forse per la morte prematura della ragazza, forse per qualche intrigo di corte. Il doppio viaggio si era così rivelato inutile per gli uomini, ma era stato fondamentale per i disegni di Dio. Nel cuore del vescovo Diego di Osma e del suo giovane sotto- priore Domenico era divampata la vocazione missionaria: infatti, viaggiando, erano giunti lino agli estremi confini della cristianità, oltre cui abitavano feroci popolazioni ancora ignare del Vangelo. Perciò, invece di rientrare in Castiglia, si recarono a Roma per rimettere le loro cariche nelle mani del Papa e partirsene per quelle terre barbare, come poveri missionari votati al martirio. Il Papa, però, non ne volle sapere, e Domenico provò la prima cocente delusione della sua vita, tanto più che essa gli veniva proprio dal Vicario di Cristo in terra. Era una di quelle delusioni radicali che devono sempre temprare coloro che Dio sceglie. Commenta acutamente Bernanos: «Almeno una volta nella vita, ogni uomo predestinato ha creduto di sentirsi mancare la terra sotto i piedi e di andare a tondo. L’illusione che di colpo crolli tutto, l’impressione di essere stati privati di ogni cosa sono il segno divino che, al contrario, inizia tutto». A Innocenzo 111 importava di più che qualcuno si dedicasse a rievangelizzare la Provenza, caduta in mano agli eretici. E di bisogno ce n’era davvero: quelle terre (come del resto altre vaste zone della cristianità) pagavano il prezzo di una mancata riforma della Chiesa, che si faceva attendere da troppo tempo: vescovi inerti e dalla fede incerta, clero ignorante, corrotto e simoniaco, parrocchie devastate, predicazione quasi inesistente, popolo cristiano abbandonato a se stesso e caduto in preda a eretici che, al contrario, ostentavano cultura e fervore. A combatterla c’erano a volte gli abati dei potenti monasteri che si muovevano garantiti dalla forza e dal denaro, o i legati pontifici che sfoderavano la loro autorità, o gli eserciti di qualche duca rimasto fedele alla Chiesa di Roma. Bisogna dire che a volte erano anche giunti dei legati, inviati dal Papa, particolarmente degni e capaci, molto dotati in tatto di «predicazione», ma si erano trovati di fronte a un dilemma insolubile: appena aprivano bocca, il popolo rinfacciava loro la pessima condotta dei preti. E se i legati riconoscevano – come era giocoforza – la verità dell’obiezione, ne seguiva che essi dovevano dedicarsi prima alla riforma del clero. Ma se sceglievano questa strada, dovevano interrompere la predicazione per la quale erano stati mandati. Fu allora che Domenico e il suo vescovo intuirono quale fosse, nella posizione degli eretici, l’unica giusta rivendicazione: chi predicava il Vangelo come gli Apostoli doveva vivere alla maniera degli Apostoli. Così, da Montpellier, il vescovo Diego rimandò a Osma tutto il suo corteo di laici ed ecclesiastici, e tutti i suoi cavalli e bagagli, trattenendo con sé solo Domenico. Insieme si incamminarono per Carcassonne, la città con la sua imponente cinta di torri, ch’era allora la principale roccaforte dell’eresia. Si presentarono poveri e indifesi e chiesero – secondo l’uso del tempo – un pubblico dibattito. Il tema, scelto dai catari, riguardò le peggiori accuse che essi rivolgevano alla Chiesa: quello «di non essere la Sposa di Cristo, ma la Sposa di Satana». L’argomento si prestava a mescolare abilmente questioni dottrinali e cumuli di zavorra, con la inesauribile risorsa di offrire, in pasto al pubblico, accuse e pettegolezzi d’ogni tipo. Chiesero che la disputa fosse preparata per iscritto e sottoposta ad arbitri imparziali. E Domenico redasse alcune parti del contraddittorio. Narrano le cronache che in quell’occasione centocinquanta persone abbiano abbandonato l’eresia. Ma narrano anche il primo miracolo del nostro santo. Poiché gli arbitri non riescono ad accordarsi, decidono – alla maniera medievale – di affidarsi al «giudizio di Dio» e gettano nel fuoco i testi di ambedue i contendenti: quelli degli eretici bruciano immediatamente, mentre le fiamme respingono per tre volte, lasciandole intatte, le pagine di Domenico. Iniziò, così, benedetta dal cielo, la straordinaria avventura. I due nuovi «apostoli» toccarono tutti i villaggi vicini, mendicando il pane di porta in porta e annunciando dovunque la Parola di Dio. Il vescovo Diego era un uomo di tale umiltà e dolcezza che anche i catari ne erano affascinati e lo consideravano un predestinato. Furono i primi esperimenti di evangelizzazione che Domenico condivise con altri «predicatori di Gesù Cristo» – quasi tutti abati cistercensi – inviati dal Papa. Ma la vicenda sembrava destinata a esaurirsi. Diego dovette rientrare in diocesi, gli abati nei loro monasteri, e Domenico restò pressoché solo. E «predicatore solitario» resta per circa sci anni, che plasmano in lui la fisionomia dell’apostolo: sempre in viaggio, a piedi, con il bastone di pellegrino, scalzo, senza bisaccia, ne borsa, né denaro, esposto a ingiurie e persecuzioni. Spesso rischia la vita perché attraversa località sature di odio e di violenza e segnate dalla guerra civile. La notte sosta in case o locande di fortuna, dormendo per terra, anche quando gli hanno preparato un buon letto. Parla volentieri di Dio a chiunque lo interroghi, altrimenti si perde nel silenzio. Un’ostessa, che lo ospita più di duecento volte, testimonierà di non aver mai sentito da lui una parola inutile. Moltiplica le veglie e le discipline, e s’impone cilici e frequenti digiuni. Non lo fa per emulare i catari, ma per dimostrare a Cristo il suo amore, per affezionarsi alla sua Croce (che i catari disprezzano) e per partecipare dal vivo alla Sua passione. Vuole espiare lui stesso le colpe di molti traviati, e vuole anche reagire a quei cattolici che pensano di combattere il male infliggendo agli altri guerre e distruzioni. Anche se sa che gli girano attorno assassini prezzolati per ucciderlo, non ha paura; non perché sia particolarmente coraggioso, ma perché – fin da quando ha sognato la missione tra i barbari del Nord – sogna il martirio. Non mancano gli episodi teneri. Un giorno, mentre a piedi scalzi si reca a una disputa generale, si affida a una guida del posto che però appartiene al campo avverso. Maliziosamente costui lo conduce su sentieri, pieni di rovi e di pietre aguzze, e Domenico, guardando i suoi piedi insanguinati, dice: «Vinceremo di sicuro la disputa, perché abbiamo già sparso il nostro sangue». E ottiene infatti una conversione di massa. E quando gli tocca attraversare a guado dei minacciosi torrenti, lo fa cantando l’Ave maris stella. Perciò un torrente gli restituisce intatte – così raccontano – persino le preziose pergamene scivolate nell’acqua: le troverà tutte impigliate all’amo di un pescatore. Attraversa folte foreste e la bellezza selvaggia della natura lo manda in estasi, tanto che pian piano si lascia distanziare dai compagni di viaggio; quando lo cercano preoccupati, lo trovano perduto in Dio, inginocchiato in preghiera, attorniato da lupi famelici che non ardiscono toccarlo. Nelle dispute, spiegando le verità della fede, spesso si commuove fino al pianto, e qualcuno si converte al vederlo così coinvolto con la dottrina che espone. D’altronde egli non semina soltanto parole: per liberare dall’eresia un cataro costretto dalle miserevoli condizioni economiche, non esita a offrirsi nuovamente in schiavitù al suo posto. Leggende? Forse. Ma – come scrive Bernanos, tracciando un profilo del nostro santo – «le vecchie leggende insegnano molto di più [delle ricerche storiche] perché trascrivono in simboli realtà profonde», e questo perfino quando raccontano che la pioggia violenta si arresta intorno a lui, e lo spazio asciutto si sposta man mano che egli cammina. Frattanto, a parte tante dispute e qualche conversione, non si può dire che abbia combinato molto. La sua opera più preziosa è stata la fondazione di un monastero femminile a Prouille, dove alcune donne, convertite dall’eresia, vivono in preghiera e amore di Dio. Domenico lo considererà sempre come il cuore del suo Ordine, quello che stava per nascere nella città di Tolosa, città da poco riconquistata, sia pure con le armi di Simone di Montfort, alla vera fede. A Tolosa, allora vera metropoli, Domenico si stabilì come «praedicationis humilis minister» e qui cominciò a ricevere i primi compagni che volevano non soltanto condividere la sua missione, ma diventare suoi fratelli e figli. La prima approvazione ufficiale dei «predicatori» fu quella del vescovo diocesano, che li riconobbe come comunità, presieduta da un superiore, e li dotò di un alloggio e di un reddito. A differenza di altri predicatori laici del tempo, alla maniera di san Francesco, il nostro Domenico volle una vera comunità di apostoli: sacerdoti dediti allo studio e alla predicazione, a nome del vescovo. La loro origine carismatica è tutta espressa in una formula alquanto strana, usata in quel primo documento di approvazione, dove il vescovo diceva: «Istituisco predicatori della mia diocesi fra Domenico e i suoi compagni, i quali si sono prefissi di procedere regolarmente a piedi nella povertà evangelica e di predicare la parola della verità evangelica». «A piedi» significava rifiuto di ogni cavalcatura – segno allora di comodità e prestigio – con la rinuncia a portare con se denaro e provviste, e la conseguente mendicità porta a porta, durante l’itineranza apostolica. Nei tempi di riposo e di studio, il vescovo stesso garantiva la casa e i beni necessari alla vita e alla formazione dei suoi predicatori, che erano propriamente «i suoi poveri». La prima cosa che Domenico fece fu di accompagnare i suoi primi compagni in una scuola di teologia e chiedere al professore di volerli accogliere come discepoli: quello doveva essere il loro lavoro! Erano in sette, tutti vestiti di bianco. Il professore li guardò a bocca aperta, tanto più che quella mattina, preparando la lezione, si era messo a sonnecchiare e aveva visto sette stelle splendere nella sua stanza e diventare sempre più luminose, tanto che la luce si diffondeva nel mondo. Li accolse, dunque. Era nato l’Ordine dei Predicatori e furono molti, nella prima metà del secolo XIII, che videro in esso la realizzazione di antiche profezie: tutte quelle in cui i Padri della Chiesa avevano parlato della necessità per la Chiesa e per il mondo che nascessero campioni invitti della predicazione del Santo Vangelo. In certi antichi testi (perfino nei Commentari di san Gregorio Magno) si leggeva proprio quel nome: Ordine dei predicatori, e i seguaci di Domenico si sentivano eredi di una antica attesa e protagonisti dell’ultima era del mondo. Non fu facile per Domenico ottenere l’approvazione pontificia di un tale Ordine: da un lato la Chiesa ormai proibiva decisamente la fondazione di nuovi istituti religiosi (decisione del Concilio Lateranense IV, nel 1215), dall’altro gli unici «predicatori» istituzionalizzati erano e dovevano restare soltanto i Vescovi. Certo, altri potevano ricevere da loro l’autorizzazione, ma come era pensabile un Ordine dei Predicatori, se quest’Ordine già esisteva ed era appunto quello episcopale? Per la prima questione fu papa Innocenzo III ad aiutare Domenico, suggerendogli di scegliersi una delle regole già esistenti, abbastanza generica da permettere nuove interpretazioni. Egli scelse quella agostiniana che già conosceva, arricchendola e precisandola con opportune Consuetudini che divennero, poi, un vero testo legislativo. Nell’anno successivo il nuovo Papa, Onorio III, strinse con Domenico una vera amicizia e, davanti alla situazione drammatica della Chiesa, gli concesse non solo l’approvazione definitiva dell’Ordine, ma anche il nuovo titolo di «Predicatori», superando il problema accennato, poiché li presentò come tali alla Chiesa «in forza della sua autorità di Pontefice», e chiamandoli «speciali figli della Sede Apostolica». Si può ben immaginare la gioia di Domenico quando vide che nella bolla pontificia il termine usato in prima stesura (che indirizzava il testo ai frati praedicantibus) era stato corretto in preaedicatoribus: così non si riconosceva solo un’azione (per quanto abituale), ma un ufficio, una identità. E forse la correzione era stata amabilmente, ma sapientemente, suggerita dallo stesso Domenico. Nemmeno il permesso dei Vescovi era più necessario, anche se i frati di Domenico continuarono umilmente a chiederlo. La prima conseguenza – dato che non era più legato a un singolo vescovo – fu che lo sguardo di Domenico poté spalancarsi alle necessità e ai drammi della Chiesa universale e nel suo cuore divampò nuovamente la passione missionaria che aveva provato ai tempi della giovinezza. S’immergeva nella preghiera e ne usciva con decisioni sempre nuove e inattese. Un giorno se ne stava a Roma, nella Basilica di San Pietro, quando gli sembrò che la mano di Dio si posasse su di lui. Comparvero Pietro e Paolo: il primo gli consegnò un bastone di pellegrino, l’altro gli mise in mano il Libro sacro. E tutte e due gli dissero: «Va’ e predica, perché Dio ti ha scelto per questo ministero». E gli parve di vedere, proprio in quell’istante, tutti i suoi frati che a due a due sciamavano nel mondo intero. Doveva, dunque, dare al suo Ordine una dimensione universale. Scelse tre sedi: Roma, Parigi e Bologna. Roma come punto d’appoggio, Parigi e Bologna come massimi centri della cultura del tempo. Tornò a Tolosa, radunò i suoi frati e annunciò loro che intendeva disperderli per il mondo. Disse: «Il buon grano se resta ammassato marcisce, se viene disseminato fruttifica». Il nucleo principale di sette religiosi fu destinato a Parigi, considerata allora capitale del pensiero teologico. Poi si incamminò nuovamente verso Roma, facendo tappa a Bologna, «il centro universale del Diritto Canonico e del Diritto Romano». Studiare a Bologna voleva dire, per coloro che si incamminavano al sacerdozio, assicurarsi per il futuro i posti più prestigiosi e remunerati nella Chiesa. Domenico vi mandò i suoi frati con Pimento di suscitare in altri studenti il desiderio di diventare «predicatori», cioè dei veri preti. Il seme iniziale era piccolo, ma fiorirà abbondantemente qualche anno dopo, quando diventerà domenicano Reginaldo d’Orléans, già professore di Diritto Canonico a Parigi. Il celebre professore dall’intelligenza acuta, dalla vita delicata, dal cuore generoso e non privo di rimorsi, arrivò in visita a Roma e si ammalò. Domenico lo conobbe e lo confortò, poi lo invitò tra i suoi. E Reginaldo gli promise obbedienza. Si aggravò, giunse in fin di vita, miracolosamente guarì. Domenico gli concesse un pellegrinaggio in Terra Santa, poi – con una immediatezza e un giudizio che solo i santi possono permettersi – lo inviò a Bologna come suo vicario. A Parigi i Domenicani sono dapprima ignorati, poi si acquistano la stima di un celebre docente che finisce per impartire le sue lezioni nella loro casa. Quando, dopo qualche anno, Domenico giunge a visitare i suoi figli, si vede attorniato da trenta frati, quasi tutti studenti conquistati nelle aule dell’università. Le vocazioni fioriscono per contagio, e sembra quasi che Dio approfitti della presenza di quei giovani frati per tormentare i cuori di altri giovani intellettuali. Un certo Guerrico sente cantare per strada un ritornello che dice: «II tempo se n’è andato / e nulla ho realizzato / il tempo ancora viene / e non faccio alcun bene», e ciò gli basta per entrare in profonda e fruttuosa crisi vocazionale. Enrico di Colonia – giovane prete, pieno di ogni dote e virtù, brillante predicatore – sente una voce che lo ferisce chiedendogli: «Tu che cosa hai lasciato per il Signore?». Passa una notte piangendo e pregando nella chiesa di Notre-Dame e al mattino conclude: «Mai potrò far parte della comunità dei poveri di Cristo!». Ma quando sta per oltrepassare la porta della chiesa si sente cambiare il cuore c invadere da tanta serenità che fa immediatamente voto al Signore di aggregarsi ai Predicatori. Domenico li raduna ripetutamente, li benedice, ma chiede loro ancora più povertà e, per stimolarli, racconta loro la sua visita alla Porziuncola dove, Tanno precedente, aveva ammirato migliaia di frati francescani radunati in totale e lieta povertà. Qualcuno dice che, da allora, Domenico sia diventato più severo in fatto di rinuncia, anche comunitaria, ai beni di questo mondo. La leggenda, introducendoci nel mistico mondo dorato della santità, ha abbellito rincontro tra san Francesco e san Domenico: «Una notte, mentre Domenico era in preghiera, come al solito, vide Gesù Cristo irritato contro il mondo, e sua Madre che gli presentava due uomini per placarlo. Egli si riconobbe in uno dei due, ma non sapeva chi fosse l’altro. Guardandolo, però, attentamente, gliene restò impressa l’immagine. Il giorno dopo, in una chiesa, egli riconobbe, sotto un saio di mendicante, la figura che gli era stata mostrata la notte precedente; allora, correndo verso il povero, se lo strinse tra le braccia con queste parole: ‘Tu sei il mio compagno, tu camminerai con me, teniamoci uniti e nessuno potrà prevalere contro di noi!’… E il loro cuore si fuse l’uno nell’altro». Una scrittrice moderna ha drammatizzato l’incontro sottolineando la reciproca «nostalgia» dei due santi: l’uno quasi desidera la vocazione dell’altro, e ambedue si abbandonano al disegno di Dio che li vuole (come poi dirà Dante) come due ruote, ambedue necessarie al dritto percorso dello stesso carro, la Chiesa. «Dio è verità e dalla nostra ignoranza nasce il peccato», dice Domenico. «Dio è amore e dal nostro disamore nasce l’ignoranza», completa Francesco. «Vorrei, o frate Francesco, che un solo Ordine divenisse il tuo e il mio, e che noi vivessimo nella Chiesa una norma uguale!». «Noi siamo due ruote di uno stesso carro, e la mia è sempre la minore», risponde il santo di Assisi. E si lasciarono con un forte abbraccio. Ma esiste anche un’altra leggenda che racconta un incontro a tre, cioè quello tra san Domenico, san Francesco e il carmelitano sant’An- gelo di Sicilia. Nell’occasione Angelo predice a Francesco il dono delle stimmate. Francesco predice ad Angelo il dono del martirio e Domenico li contempla con gli occhi colmi di desiderio. Forse tali incontri non sono mai accaduti, ma le anime hanno ugualmente i loro appuntamenti. In seguito alla visita in Francia, Domenico dà il via a una nuova sciamatura, verso la sua patria: la Spagna. Torna a Bologna. Durante il viaggio è ospitato da un parroco che gli imbandisce una tavola misera. Ma intanto un nipotino del prete, che sta giocando in terrazza, cade dall’alto muro. Domenico raccoglie nelle sue braccia il corpicino esanime, lo riscalda e lo restituisce incolume alla madre. Inutile dire che la modesta refezione si tramuta in un trionfale banchetto. Intanto, a Bologna, maestro Reginaldo s’era dato alla predicazione con un tale ardore «che non c era cuore freddo o indurito che reggesse al suo calore» e in città si diceva che era sorto un nuovo profeta Elia. Attorno a lui si accalcavano studenti, e non mancavano colleghi professori di università che entravano nell’Ordine. A chi aveva conosciuto le ambizioni e le raffinatezze del professore di Parigi di un tempo, e gli chiedeva se non provasse ora ripugnanza d’appartenere a un Ordine così povero, Reginaldo rispondeva umilmente: «Io non ho alcun merito a vivere nell’Ordine, perché vi ho sempre trovato molta gioia». E questa gioia era contagiosa. C’era appunto un altro professore, maestro Moneta, celebre in tutta la Lombardia, che lo sfuggiva accuratamente: non voleva nemmeno sentirlo parlare per paura d’essere stregato, e raccomandava ai suoi studenti di tenersi alla larga da Reginaldo d’Orléans. Gli studenti facevano apposta a invitarlo in cattedrale dove Reginaldo abitualmente predicava davanti a un folto pubblico. Era la festa di santo Stefano, non c’erano lezioni, il professore non riusciva a trovare una scusa. Disse che prima doveva andare a messa a santo Stefano: entrò in chiesa e di messe ne ascoltò tre, pur di sfuggire all’agguato. Gli studenti implacabili lo attendevano e finirono per trascinarlo in cattedrale. Non riuscirono a entrare tanto era gremita, ma la voce del predicatore, giunto alle ultime battute, si udiva all’esterno: «Io vedo i cieli aperti», diceva, citando le parole di santo Stefano morente. «Sì, perché oggi si aprono i cieli, affinché noi vi entriamo… Vi riflettano e si scuotano gli infelici negligenti che chiudono il loro cuore! Ma perché indugiate, fratelli? Ecco: i cieli sono aperti!». Quando la predica fu finita, maestro Moneta corse da Reginaldo, lo abbracciò piangendo, e gli promise obbedienza. Divenne, a sua volta, un apostolo per altri studenti e altri professori. Così si sviluppò la comunità di Bologna, da dove i Domenicani si sparsero in tutta Italia. È giusto qui riflettere un poco sullo straordinario carisma che Dio donò a Domenico per la edificazione della Santa Chiesa. In una formula breve, possiamo dire questo: Dio scelse un vero contemplativo (tale era Domenico) e poi gli comandò «di pregare ad alta voce». Così Domenico concepì «la grazia della predicazione» e, così, di conseguenza egli concepì lo studio e la disciplina intellettuale. Nelle antiche consuetudini monastiche, Domenico inserì un elemento nuovo: l’applicazione allo studio, inteso come lavoro e come preghiera, e il tempo a ciò necessario, e inculcò il rispetto dei libri. Non ebbe paura di ridurre il lungo tempo che allora i monaci destinavano al coro, né di offrire ai suoi frati numerose e calcolate dispense, tutte le volte che era in gioco la loro preparazione intellettuale in vista della predicazione. Di conseguenza gli antichi usi monastici acquistavano un altro sapore e un’altra finalità: la povertà era perché non ci fosse distanza tra il predicatore e la Parola predicata (lo stesso Gesù «povero»); il silenzio conventuale era per creare il clima necessario alla lettura e alla riflessione, tanto che in seguito nascerà il motto: «Il silenzio è il padre dei predicatori» («Silentium pater praedicatorum»); e il lavoro manuale si trasformava in quello studio incessante per mezzo del quale «si mastica il pane della Parola di Dio» («studium per quod masticatur panis verbi Dei»). Perfino le dispense previste dalla Regola non dovevano essere date tanto per la debolezza o la malattia dei frati, ma per facilitare i loro doveri di studio e di evangelizzazione. Addirittura ogni convento, per essere tale, doveva diventare una scuola di teologia: non vi doveva mancare qualche «Dottore», e vi si dovevano tenere lezioni a cui tutti i frati (anche i superiori e altri eventuali maestri) erano tenuti ad assistere. Lo studio doveva restare la passione predominante. Nelle Institutiones date ai frati, Domenico fece scrivere che il Maestro dei novizi doveva insegnare loro «con quanta cura vadano trattati i libri…, quale applicazione debbano porre allo studio, in modo che di giorno e di notte, in casa e in viaggio, sempre siano occupati a leggere o a meditare qualche cosa, sforzandosi di tenere a mente quanto più è loro possibile; e con quale fervore dovranno poi attendere alla predicazione al momento debito». Che, però, il santo non volesse degli «intellettuali», nel senso deteriore del termine, lo si può capire da quel piccolo avverbio che egli usava costantemente: bisognava studiare sempre (nella tradizione monastica l’avverbio riguarda la preghiera!). Era quel «sempre» che faceva dello studio un’umile e penitente consacrazione. L’ideale domenicano è dunque quello del «praedicator gratiosus», del predicatore «grazioso», non nel senso che debba essere affascinante o incantare il suo pubblico, ma nel senso che dev’essere «impregnato di grazia di Dio», come lo era la Vergine Santa. E ciò, a patto che «la grazia della predicazione» coincida, per così dire, con «la predicazione della grazia», con l’annuncio di quella salvezza che soltanto Dio può donare. Questa era ed è «la verità» che occorre imparare e insegnare. La liturgia definirà appunto san Domenico Doctor Veritatis, ed è stato fatto notare che il suo discepolo più illustre, san Tommaso d’Aquino, ha messo proprio questa parola Veritas nel primo capoverso delle sue due opere maggiori (la Somma Teologica e la Somma contro i gentili). E Veritas sarà il motto che l’Ordine dei predicatori si sceglierà. Domenico era convinto di non togliere nulla a Dio, nell’insistere tanto sullo studio. Bastava che i frati si uniformassero al suo esempio. Tutti, infatti, sapevano che egli «o parlava con Dio, o parlava di Dio» (Domenico avrebbe voluto che questa formula fosse inserita nelle sue Costituzioni!), e lo stesso poteva dirsi dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, delle sue azioni. S’era abituato a passare le notti in preghiera e, di conseguenza, a volte si addormentava durante il giorno (specie in refettorio!), ma al mattino «raggiava di gioia» perché poteva donare al prossimo i frutti della sua preghiera. Nel 1220 Domenico poté radunare a Bologna il Capitolo generale del suo Ordine: alla trentina di «predicatori», provenienti da tutta Europa, egli si presentò dicendo: «Merito di essere deposto perché sono ormai inutile e sfinito». Tutti evidentemente rifiutarono le dimissioni. Egli allora li impegnò a redigere assieme quelle famose Costituzioni che, secondo il celebre medievalista Léo Moulin, sono così bene architettate da equivalere a una cattedrale medievale. In seguito nascerà la leggenda secondo cui una copia delle Costituzioni di san Domenico si trovava nel 1787 sul tavolo dei «Padri» degli Stati Uniti d’America che stilarono la Costituzione. Concluso il Capitolo di Bologna, il Papa chiese a Domenico di organizzare una predicazione anche in Lombardia, per combattervi l’eresia catara che covava tra le popolazioni e si mescolava alle lotte furiose per le libertà comunali. Il santo, non ancora cinquantenne, ma già logorato dai continui viaggi e dalle privazioni senza numero, vi si dedicò come negli anni della giovinezza. Nel 1221, in un nuovo Capitolo generale sempre a Bologna, Domenico diede rassestamento definitivo alla sua famiglia religiosa e poté finalmente lanciarla nelle terre di missione secondo il suo antico sogno. Ungheria, Danimarca, Dacia, Polonia ricevettero i domenicani che si diffusero fino alle porte dell’Asia. All’inizio del Trecento, ottant’anni dopo, i frati di Domenico saranno più di diecimila. Negli ultimi mesi di vita, sempre per volontà del Pontefice, Domenico si reca a Venezia, per riprendere la predicazione contro gli eretici, ma finisce per ammalarsi gravemente. Si porta stremato a Bologna, alla fine di luglio del 1221, accolto in quello che è ormai il convento più grande dell’Ordine, dove, però, non ha né una stanza, né un letto, ma solo una branda di corda, in un angolo. Maestro Moneta gli presta, dunque, la propria cella e il letto. Il 6 agosto il Fondatore raduna i frati attorno al suo giaciglio per gli ultimi insegnamenti. Si lascia andare a qualche confidenza personale, e subito se ne fa scrupolo. Raccomanda in maniera accorata e severa la povertà. Dice che vuole essere sepolto: «sotto i piedi dei suoi frati», certo per umiltà, forse anche per restare come loro sostegno. Dirige lui stesso le grandi preghiere della raccomandazione dell’anima. Poi affida tutti i presenti al Padre dei cieli, ripetendo le stesse parole che Gesù ha pronunciato nell’ultima sera della sua vita: «Coloro che tu mi hai dato io li ho custoditi, ora te li raccomando a mia volta: conservali e custodiscili Tu!». La sera del 6 agosto 1221 (da qualche anno è festa della Trasfigurazione), Domenico spira trasfigurato. Ma è rivestito da un abito così vecchio e rattoppato che debbono prestargliene uno, perché la salma possa essere dignitosamente esposta. I frati osservano quel volto scavato dalle sofferenze e dalla passione, ma ancora così innocente come quello di un bambino.

(A.Sicari, Il secondo grande libro dei ritratti di santi, Jaca Book, 2006)

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