NT/ Maggio 4, 2023/ Vangelo-Domenica con i Padri, Liturgia della Parola domenicale, Orientamenti per la preghiera, Vangelo, Padri Chiesa, Commenti Bibbia, Raccolte, Meditazioni, Riflessioni, Studi, Sacra Scrittura, Padri, Domenica

La mancanza di un’educazione basata su uno sforzo costante per la riuscita, ci ha portati a cercare la via più facile e comoda per raggiungere delle mete. La pubblicità ne è complice con la promessa di metodi infallibili e senza sforzi per riuscire presto nella vita, farsi tanti amici, raddoppiare o triplicare per così dire la memoria, quando invece quest’ultima viene indebolita; o apprendere una nuova lingua in 2 o 3 mesi. Anche qui, per nuovi bisogni sto cercando di imparare e usare nuove modalità, ma come c’insegnano in particolare i Padri del deserto non si può costruire senza lottare, senza uno sforzo continuo attraverso le «armi » della preghiera e di una certa ascesi che ci abituino a migliorarci ogni giorno per Dio nella fatica quotidiana.

LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura (At 6,1-7)

Le difficoltà organizzative stavano per distogliere gli apostoli dalla loro missione principale: annunciare la Parola di Dio che salva da tutto e tutti. Vi rimediano, infatti, dopo aver pregato,  e affidando ad altri quegli incarichi preparatori e logistici. “Scelsero sette uomini pieni di Spirito Santo”: il primo di questi collaboratori Stefano, sarà il primo martire cristiano ad aver dato la vita per testimoniare la propria fede in Gesù Cristo morto e risorto e per la diffusione del Vangelo.

Dagli Atti degli Apostoli (At 6,1-7)

In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove.
Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».
Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani.
E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.

Parola di Dio.

Salmo Responsoriale-Dal Sal 32 (33)

R. Il tuo amore, Signore, sia su di noi: in te speriamo.

Esultate, o giusti, nel Signore;
per gli uomini retti è bella la lode.
Lodate il Signore con la cetra,
con l’arpa a dieci corde a lui cantate. R.

Perché retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra. R.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame. R.

Seconda Lettura (1Pt 2,4-9)

Per la costruzione del grande edificio spirituale che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, noi saremo pietre vive se, lungi dal darci alle attività più comode, più facili o che diano soddisfazioni immediate ci sappiamo domandare che cosa vuole da noi il Cristo e, ed essere disposti al sacrificio pur di compiere l’opera che egli vuole da noi.

Dalla prima lettera di san Pietro apostolo (1Pt 2,4-9)

Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso».
Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo.
Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.

Parola di Dio.

Acclamazione al Vangelo

Alleluia, alleluia.

Io sono la via, la verità e la vita, dice il Signore;
nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (Gv 14,6)

Alleluia.

VANGELO

La via per cui dobbiamo giungere al Padre è Gesù: non è una via semplice e spaziosa ma stretta e angusta (cf. Mt 7, 12-14), ed è l’unica perché solo Gesù ci può rivelare il Padre: «Io sono la via, la verità e la vita».

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,1-12)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

ORIENTAMENTI PER LA PREGHIERA

Voi siete le pietre del tempio del Padre, preparate per la costruzione da Dio Padre, portate fino alla sommità da Gesù Cristo, attraverso la croce e lo Spirito Santo; la vostra fede vi porta in alto, e la carità è la strada che vi innalza verso Dio.

(S.Ignazio d’Antiochia, Lettera agli efesini, 9,1)

Ogni mattina è una giornata intera che riceviamo dalle mani di Dio.
Dio ci dà una giornata intera da lui stesso preparata per noi.
Non vi è nulla di troppo e nulla di “non abbastanza”, nulla di indifferente e nulla di inutile.
È un capolavoro di giornata che viene a chiederci di essere vissuto.
Noi la guardiamo come una pagina di agenda, segnata d’una cifra e d’un mese.
La trattiamo alla leggera come un foglio di carta.
Se potessimo frugare il mondo e vedere questo giorno elaborarsi e nascere dal fondo dei secoli,
comprenderemmo il valore di un solo giorno umano […]

Quando quelli che amiamo ci chiedono qualcosa, noi li ringraziamo di avercelo chiesto.

Se a te piacesse, Signore, chiederci una sola cosa in tutta la nostra vita, noi ne rimarremmo meravigliati e l’aver compiuto questa sola volta la tua volontà sarebbe «l’avvenimento» dei nostro destino.

Ma poiché ogni giorno ogni ora ogni minuto tu metti nelle nostre mani tanto onore, noi lo troviamo così naturale da esserne stanchi, da esserne annoiati.

Tuttavia, se comprendessimo quanto inscrutabile è il tuo mistero, noi rimarremmo stupefatti di poter captare queste scintille del tuo volere che sono i nostri microscopici doveri.

Noi saremmo abbagliati nel conoscere, in questa tenebra immensa che ci avvolge, le innumerevoli
precise personali luci delle tue volontà.

Il giorno che noi comprendessimo questo andremmo nella vita come profeti, come veggenti delle tue piccole provvidenze, come mediatori dei tuoi interventi.

Nulla sarebbe mediocre, perché tutto sarebbe voluto da te.
Nulla sarebbe troppo pesante, perché tutto avrebbe radice in te.
Nulla sarebbe triste, perché tutto sarebbe voluto da te.
Nulla sarebbe tedioso, perché tutto sarebbe amore di te.
Noi siamo tutti dei predestinati all’estasi, tutti chiamati a uscire dai nostri poveri programmi per approdare, di ora in ora, ai tuoi piani. Noi non siamo mai dei miserabili lasciati a far numero, ma dei felici eletti, chiamati a sapere ciò che vuoi fare, chiamati a sapere ciò che attendi, istante per istante, da noi. Persone che ti sono un poco necessarie, persone i cui gesti ti mancherebbero, se rifiutassero di farli.
Il gomitolo di cotone per rammendare, la lettera da scrivere, il bambino da alzare, il marito da rasserenare, la porta da aprire, il microfono da staccare, l’emicrania da sopportare:
altrettanti trampolini per l’estasi, altrettanti ponti per passare dalla nostra povertà, dalla nostra cattiva volontà alla riva serena dei tuo beneplacito.

(M.Delbrèl, La gioia di credere)

Strada larga è l’attaccamento ai beni del mondo che gli uomini agognano. Angusta è quella che si percorre a prezzo di faticose rinunce, per la quale anche l’ Apostolo è entrato (cf. 2 Cor 6, 5; 11, 27), esortando Timoteo a entrarvi anche lui (cf. 1 Tm 5, 21). Osserva anche come insista sui particolari che contrassegnano ambedue le vie: sono molti quelli che s’incamminano per la via larga, mentre soltanto pochi trovano la stretta; non occorre andare in cerca della via larga, né è difficile trovarla: spontaneamente essa si offre a noi, perché è la via di coloro che sbagliano; quella stretta, invece, non tutti la trovano, e coloro che la trovano non sempre vi entrano immediatamente: molti, infatti, pur avendo trovata la via della verità, si voltano indietro a mezza strada, presi dalle seduzioni del mondo.
(S.Girolamo, Commento al Vangelo di Matteo 1, 7, 13)

Nella casa del Padre vi sono molte dimore.

Dio è carità, e in virtù della carità ciò che hanno i singoli diventa comune a tutti. Quando uno ama, possiede nell’altro anche ciò che egli personalmente non ha. Non è possibile l’invidia là dove regna l’unità della carità.

Con maggiore intensità, fratelli, dobbiamo rivolgere a Dio la nostra attenzione, per poter intendere in qualche modo le parole del santo Vangelo che sono risuonate adesso alle nostre orecchie. Il Signore Gesù dice: Non si turbi il vostro cuore: credete in Dio, e credete in me (Gv 14, 1). Affinché, come uomini, non dovessero temere la morte, turbandosi per lui, li consola affermando che anche lui è Dio. Credete in Dio – dice – e credete in me. Se credete in Dio, è logico che crediate anche in me; il che non sarebbe logico se Cristo non fosse Dio. Credete in Dio, e credete in colui che per natura, non per usurpazione, è alla pari con Dio, e che annientò se stesso prendendo forma di servo, tuttavia senza perdere la forma di Dio (cf. Fil 2, 6). Voi paventate la morte per questa forma di servo: non si turbi il vostro cuore, perché la forma di Dio la risusciterà.

[Regnerà in tutti l’unità della carità.]

Ma che vuol dire ciò che segue: Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore (Gv 14, 2)? Proprio perché i discepoli temevano anche per se stessi, era necessario che il Signore dicesse loro: Non si turbi il vostro cuore. E chi di loro poteva essere senza timore dopo che il Signore aveva detto a Pietro, il più fiducioso e il meglio disposto tra loro: Non canterà il gallo prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte (Gv 13, 38)? C’era di che esser turbati, come se dovesse loro toccare in sorte di doversi separare da lui. Ma sentendosi dire: Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore: se così non fosse, ve l’avrei detto: poiché vado a prepararvi un posto (Gv 14, 2), si riprendono dal loro turbamento, sicuri e fiduciosi che al di là dei pericoli della prova rimarranno presso Dio, con Cristo. Uno potrà essere più forte di un altro, più sapiente, più giusto, più santo, ma nella casa del Padre vi sono molte dimore; nessuno verrà escluso da quella casa dove ciascuno riceverà la sua dimora secondo il merito. Il denaro che per ordine del padre di famiglia viene dato a quanti hanno lavorato nella vigna, senza distinzione tra chi ha faticato di più e chi di meno, è uguale per tutti (cf. Mt 20, 9); e questo denaro significa la vita eterna dove nessuno vive più di un altro, perché nell’eternità non vi può essere una diversa durata della vita; e le diverse mansioni rappresentano i diversi gradi di meriti che esistono nell’unica vita eterna. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna, altro lo splendore delle stelle; sì, perfino stella da stella differisce in splendore; così è per la risurrezione dei morti. Come le stelle in cielo, i santi hanno dimore diverse così come diverso è il loro splendore; ma in grazia dell’unico denaro nessuno viene escluso dal regno. E così Dio sarà tutto in tutti (cf. 1 Cor 15, 41-42 28), perché, essendo Dio carità (cf. 1 Io 4, 8), per effetto di questa carità ciò che ognuno possiede diventa comune a tutti. In questo modo, infatti, quando uno ama, possiede nell’altro ciò che egli non ha. La diversità dello splendore non susciterà invidia perché regnerà in tutti l’unità della carità.

Perciò, il cuore cristiano deve rigettare l’opinione di chi sostiene che le molte mansioni autorizzano a pensare che, al di fuori del regno dei cieli, esiste un altro luogo dove vivono felici gli innocenti che sono usciti da questa vita senza aver ricevuto il battesimo, non potendo senza di esso entrare nel regno dei cieli. Tale fede non è fede, perché non è fede vera e cattolica. E voi, uomini stolti e accecati da pensieri carnali, ben meritate di essere riprovati per aver separato dal regno dei cieli, non dico la dimora di Pietro e di Paolo o di qualsiasi altro apostolo, ma anche la dimora di un qualunque bambino battezzato: non credete di dover essere riprovati per aver distinto e separati da esso la casa di Dio Padre? Non dice infatti il Signore: Nel mondo intero, nell’universo creato, oppure nella vita o beatitudine eterna vi sono molte dimore. Egli dice: Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Non è forse questa l’abitazione che noi abbiamo da Dio, la dimora non costruita da mano d’uomo, ma eterna nel cielo (cf. 2 Cor 5, 1)? Non è questa la casa di cui cantiamo, rivolti al Signore: Beati quelli che abitano nella tua casa; nei secoli dei secoli ti loderanno (Sal 83, 5)? E voi osate dividere, non la casa di un qualunque fratello battezzato, ma la casa stessa di Dio Padre, al quale tutti noi fratelli diciamo: Padre nostro che sei nei cieli (Mt 6, 9), e dividerla in modo che alcune sue dimore siano nel regno dei cieli e altre fuori di questo regno! Non sia mai che quanti vogliono abitare nel regno dei cieli, condividano con voi un’opinione così stolta! Non può essere, dico, che una qualunque parte della casa reale rimanga fuori del regno, dal momento che l’intera casa dei figli che regnano non rimarrà fuori del regno.

E quando sarò partito – continua – e avrò preparato un posto per voi, ritornerò e vi prenderò con me, affinché dove sono io siate anche voi. E voi conoscete dove vado e la via per andarvi (Gv 14, 3-4). O Signore Gesù, in che senso vai a preparare il posto, se nella casa del Padre tuo, dove i tuoi abiteranno con te, vi sono già molte dimore? E in che senso dici che ritornerai per prenderli con te, se tu non ti allontani da loro? Se ci sforzassimo, o carissimi, di spiegare brevemente queste cose nei limiti consentiti al discorso di oggi, non risulterebbero chiare, e la brevità stessa le renderebbe più oscure; per cui preferiamo contrarre con voi un debito, nella speranza di poterlo pagare, con l’aiuto del Padre di famiglia, in momento più opportuno.

Il Signore va a prepararci il posto.

Ci prepara un posto in sé, e si prepara un posto in noi. E’ il senso delle sue parole: Rimanete in me ed io in voi. Sappiamo di avere un debito con voi, o fratelli carissimi, che avevamo rinviato e che adesso dobbiamo pagare. Il debito consiste nel mostrare che nelle parole del Signore non vi è contraddizione. Ha detto: Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se così non fosse, vi avrei detto che vado a prepararvi un posto (Gv 14, 2). Appare chiaro da queste parole che nella casa del Padre suo vi sono molte dimore e che non c’è bisogno di prepararne; ma subito dopo dice: E quando sarò partito e avrò preparato un posto per voi, ritornerò e vi prenderò con me, affinché dove sono io siate anche voi (Gv 14, 3). Perché va a preparare il posto, se vi sono già molte dimore? Se così non fosse, avrebbe detto: Vado a prepararvelo. Se era invece ancora da preparare, perché non dire: vado a prepararvelo? Ovvero queste dimore vi sono, ma bisogna prepararle? Se così non fosse, non avrebbe detto: vado a prepararvi il posto. Queste dimore esistono, ma bisogna prepararle. Il Signore non va a prepararle come sono; ma quando sarà andato e le avrà preparate come si deve, allora tornerà per prendere i suoi con sé, affinché anch’essi siano dove è lui. In che senso dunque le dimore nella casa del Padre sono le stesse, non diverse, e sicuramente esistono già senza che debbano essere preparate, e insieme non sono ancora quali devono essere preparate? Nello stesso senso in cui il profeta dice che Dio ha fatto le cose che dovranno essere fatte. Il profeta non dice che Dio farà le cose che saranno, ma che ha fatto le cose che saranno (Is 45, 11 sec. LXX). Cioè le ha fatte e insieme le farà. Esse non sarebbero state fatte, se egli non le avesse fatte; né saranno fatte se egli non le farà. Egli le ha fatte predestinandole all’esistenza, e le farà chiamandole all’esistenza. Così come il Signore ha eletto gli Apostoli in quel preciso momento in cui, secondo il Vangelo, li ha chiamati (cf. Lc 6, 13); e tuttavia l’Apostolo dice: Ci ha eletti prima della creazione del mondo (Ef 1,4), cioè ci ha eletti predestinandoci, non chiamandoci. Quelli poi che ha predestinati, li ha anche chiamati (Rm 8, 30): li ha eletti predestinandoli prima della creazione del mondo, li ha eletti chiamandoli prima della fine del mondo. In questo senso ha preparato e prepara le dimore: prepara non altre dimore, ma le stesse preparate da lui che ha fatto le cose che saranno: egli va a preparare mediante la realizzazione le dimore che ha preparato mediante la predestinazione. Esse già esistono nella predestinazione; se così non fosse, avrebbe detto: vado a preparare, cioè a predestinare. Ma siccome nella realizzazione ancora non esistono, dice: E quando sarò partito e avrò preparato un posto per voi, ritornerò e vi prenderò con me.

[Formazione del regno.]

Si può dire che il Signore prepara le dimore preparando coloro che dovranno occuparle. In base alle sue parole: Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore, che cosa dobbiamo pensare che sia la casa di Dio se non il tempio di Dio? Se a questo proposito interroghiamo l’Apostolo, egli ci risponderà: Santo è il tempio di Dio, che siete voi (1 Cor 3, 17). Si identifica anche col regno di Dio che il Figlio consegnerà al Padre, secondo quanto dice il medesimo Apostolo: Primizia è Cristo; poi coloro che sono di Cristo, al momento della sua Parusia; quindi la fine, allorquando egli consegnerà il regno al Dio e Padre (1 Cor 15, 23-24); cioè, quelli che ha redenti col suo sangue li consegnerà al Padre perché lo possano contemplare per sempre. Questo è il regno dei cieli, di cui è detto: Il regno dei cieli è simile ad un uomo che semina il buon seme nel suo campo; il buon seme poi sono i figli del regno, che sono ora mescolati alla zizzania; ma alla fine del mondo il re manderà i suoi angeli, che toglieranno via dal suo regno tutti gli scandali. Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro (Mt 13, 24 38-43). Il regno risplenderà nel regno, allorché sarà compiuto quel regno che adesso invochiamo dicendo: Venga il tuo regno! (Mt 6, 10). Fin d’ora è chiamato regno, ma è ancora in formazione. Se non avesse già il nome di regno, il Signore non direbbe: Toglieranno via dal suo regno tutti gli scandali. Ma questo regno non regna ancora. E’ già regno nel senso che quando da esso saranno eliminati tutti gli scandali, non avrà più soltanto il nome di regno, ma lo sarà nel senso pieno e definitivo. E a questo regno, collocato alla destra, il Signore dirà: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno (Mt 25, 34); cioè, voi che eravate regno ma non regnavate, venite a regnare, sì da essere in realtà ciò che siete stati nella speranza. Dunque, questa casa di Dio, questo tempio di Dio, questo regno di Dio, questo regno dei cieli, è ancora in costruzione, è ancora in formazione; ancora dev’essere preparato, ancora deve essere raccolto. In esso vi saranno quelle dimore che il Signore è andato a preparare; dimore che già esistono in quanto il Signore le ha già predestinate.

Ma perché egli se n’è andato per preparare queste dimore, dato che egli deve preparare noi, cosa che non può fare se ci lascia? Comprendo come posso, o Signore, ma il senso mi sembra questo: perché si preparino queste dimore, il giusto deve vivere di fede (cf. Rm 1, 17). Chi è infatti esule dal Signore ha bisogno di vivere di fede, perché è mediante la fede che si prepara alla visione beatifica (cf. 2 Cor 5, 6-8). Beati – infatti – i mondi di cuore, perché vedranno Dio (Mt 5, 8). E un altro testo dice che è mediante la fede che Dio purifica i cuori (At 15, 9). Il primo testo si trova nel Vangelo, il secondo negli Atti degli Apostoli. Ora la fede, per mezzo della quale vengono purificati i cuori di quelli che vedranno Dio, finché questi sono pellegrini, consiste nel credere ciò che ancora non si vede: quando tu vedrai, non avrai più bisogno di fede. Chi crede si guadagna dei meriti, e vedendo riceve il premio. Vada dunque il Signore a preparare il posto; vada per sottrarsi al nostro sguardo, si nasconda per essere creduto. Viene preparato il posto se si vive di fede. Dalla fede nasce il desiderio, il desiderio prepara al possesso, poiché la preparazione della celeste dimora consiste nel desiderio, frutto dell’amore. Sì, o Signore, prepara ciò che sei andato a preparare; e prepara noi per te e prepara te per noi, preparandoti il posto in noi e preparando a noi il posto in te. Tu infatti hai detto: Rimanete in me e io rimarrò in voi (Gv 15, 4). Secondo che sarà più o meno partecipe di te, ciascuno avrà un merito, e quindi un premio, maggiore o minore. La molteplicità delle dimore è appunto in rapporto alla diversità dei meriti di coloro che dovranno occuparle, tutti però avranno la vita eterna e la beatitudine infinita. Ma che significa, o Signore, il tuo andare e che significa il tuo venire? Se bene intendo, tu non ti sposti né andando né venendo: te ne vai nascondendoti, e vieni manifestandoti. Ma se non rimani con noi per guidarci, per farci progredire nella santità della vita, come potrai prepararci il posto dove potremo dimorare godendo di te? Basti questo come commento alle parole del Vangelo, che sono state lette fin dove il Signore dice: Ritornerò e vi prenderò con me. Il significato della frase seguente: Affinché dove sono io siate anche voi. E voi conoscete dove vado e la via per andarvi (Gv 14, 4), in risposta alla domanda fattagli da un discepolo quasi a nome nostro, lo vedremo meglio e lo tratteremo a tempo più opportuno.

La domanda di Tommaso.

L’apostolo, quando fece la sua domanda, aveva davanti a sé il Maestro, ma non avrebbe potuto comprendere la risposta se non avesse avuto anche dentro di sé il Maestro. E’ necessario interrogare e ascoltare il Maestro che è dentro di noi e sopra di noi. Nella risposta che, come avete udito, diede il Signore all’apostolo Tommaso, cerchiamo di comprendere meglio che possiamo, o carissimi, le prime parole del Signore attraverso le successive, le antecedenti attraverso le conseguenti. Poco prima il Signore, parlando delle diverse dimore che ci sono nella casa del Padre suo, aveva detto che egli andava a prepararle; e da ciò noi abbiamo dedotto che queste dimore esistono già nella predestinazione e che insieme vengono preparate quando, mediante la fede, vengono purificati i cuori di coloro che le occuperanno, poiché essi stessi sono la casa di Dio. Infatti, che altro vuol dire abitare nella casa di Dio se non appartenere al popolo di Dio, del quale si dice che è in Dio e Dio in lui? E’ per preparare questa dimora che il Signore se ne va, affinché noi, credendo in lui che non si vede, ci si prepari mediante la fede a quella dimora permanente che consiste nella visione di Dio. Perciò aveva detto: E quando sarò partito e avrò preparato un posto per voi, ritornerò e vi prenderò con me, affinché dove sono io siate anche voi. E voi conoscete dove vado e la via per andarvi. E’ allora che Tommaso gli dice: Signore, noi non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via? (Gv 14, 3-5). Il Signore aveva detto che essi conoscevano l’una e l’altra cosa, e Tommaso dice di non conoscere nessuna delle due cose: né il luogo dove egli va, né la via per andarci. Ma il Signore non può mentire: gli Apostoli dunque conoscevano ambedue le cose, ma non sapevano di conoscerle. Li convinca che essi sanno ciò che credono di non sapere. Gli dice Gesù: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6). Che significa questo, fratelli? Abbiamo sentito la domanda del discepolo, abbiamo sentito la risposta del Maestro, ma ancora non abbiamo compreso il contenuto della risposta, neppure dopo che abbiamo sentito il suono della voce. Ma che cosa non possiamo capire? Forse che gli Apostoli, con i quali si intratteneva, potevano dirgli: noi non ti conosciamo? Pertanto se lo conoscevano, dato che lui è la via, conoscevano la via; se lo conoscevano, dato che lui è la verità, conoscevano la verità; se lo conoscevano, dato che lui è la vita, conoscevano la vita. Ecco che si convincono di sapere ciò che credevano di non sapere.

[Andava, per mezzo di se stesso, a se stesso e al Padre.]

Cos’è dunque che noi in questo discorso non abbiamo capito? Che cosa, fratelli, se non le parole: E voi conoscete dove vado e la via per andarvi? Ci siamo resi conto che essi conoscevano la via, poiché conoscevano lui che è la via. Ma la via serve per camminare; forse che è anche il luogo dove si deve andare? Egli aveva detto che essi conoscevano l’una e l’altra cosa: e il luogo dove andava e la via. Era dunque necessario che egli dicesse: Io sono la via, per dimostrare che essi, conoscendo lui, conoscevano la via che credevano di non conoscere; ma era altrettanto necessario che dicesse: Io sono la via, la verità e la vita, perché, una volta conosciuta la via, restava da conoscere la meta. La via conduceva alla verità, conduceva alla vita. Egli, dunque, andava a se stesso attraverso se stesso. E noi dove andiamo, se non a lui? e per quale via camminiamo, se non per lui? Egli va a se stesso attraverso se stesso; noi andiamo a lui per mezzo di lui; o meglio, andiamo al Padre sia lui che noi. Infatti, parlando di se stesso, altrove dice: Vado al Padre (Gv 16, 10); mentre qui, per noi dice: Nessuno viene al Padre se non per mezzo mio (Gv 14, 6). Egli dunque va, per mezzo di se stesso, a se stesso e al Padre; noi, per mezzo di lui, andiamo a lui e al Padre. Chi può capire questo, se non chi possiede l’intelligenza spirituale? E anche chi possiede l’intelligenza spirituale, fino a che punto può capire? Perché, o fratelli, mi chiedete che vi esponga queste cose? Rendetevi conto quanto siano elevate. Voi vedete ciò che sono io, io vedo ciò che siete voi: in tutti noi il corpo corruttibile appesantisce l’anima e la terrena dimora deprime la mente presa da molti pensieri (cf. Sap 9, 15). Credete che possiamo dire: Ho elevato l’anima mia a te che abiti in cielo (Sal 122, 1)? Ma oppressi da tanto peso che ci fa gemere, come potrò elevare la mia anima, se non la eleva con me colui che ha offerto la sua per me? Dirò quello che posso, capisca chi può. Colui che aiuta me a parlare aiuterà voi a capire e aiuterà almeno a credere chi non riuscirà a capire. Se non crederete – dice infatti il profeta – non capirete (Is 7, 9 sec. LXX).

Dimmi, o mio Signore, che dirò ai servi tuoi e conservi miei? L’apostolo Tommaso, quando ti interrogava, ti aveva davanti a sé, e tuttavia non ti avrebbe capito se non ti avesse avuto dentro di sé. Io ti interrogo sapendo che tu sei sopra di me; però ti interrogo in quanto posso effondere l’anima mia sopra di me, dove potrò ascoltare te che mi insegni senza suono di parole. Dimmi, ti prego, in che modo vai a te? Forse che per venire a noi hai lasciato te, tanto più che non sei venuto da te ma ti ha mandato il Padre? So bene che ti sei annientato; ma solo perché hai preso la forma di servo (cf. Fil 2, 7), non perché tu abbia deposto la forma di Dio sì da doverla ricercare, o perché l’abbia perduta si da doverla riprendere. Comunque sei venuto, non soltanto rendendoti visibile agli occhi degli uomini ma facendoti perfino arrestare dalle loro mani. E come è stato possibile questo, se non perché avevi assunto la carne? Per mezzo di essa sei venuto tra noi pur rimanendo dov’eri, e per mezzo di essa sei ritornato dov’eri prima, senza tuttavia lasciare la terra dov’eri venuto. Se dunque è per mezzo della carne che sei venuto e sei ritornato via, è certamente per mezzo di essa che tu sei la via, non soltanto per noi, per venire a te, ma anche per te stesso sei diventato la via per venire a noi e ritornare al Padre. Quando però sei andato alla vita che sei tu stesso, allora hai fatto passare questa tua carne dalla morte alla vita. Non sono certamente la medesima cosa il Verbo di Dio e l’uomo; ma il Verbo si è fatto carne, cioè uomo. E così, il Verbo e l’uomo non sono due persone diverse: l’uno e l’altro sono il Cristo che è una sola persona; e perciò, come quando la carne è morta, Cristo è morto, e quando la carne è stata sepolta, Cristo è stato sepolto [è questo infatti che col cuore crediamo per ottenere la giustizia, ed è questo che con la bocca professiamo per ottenere la salvezza (cf. Rm 10, 10)], così quando la carne è passata dalla morte alla vita, Cristo è passato alla vita. E siccome Cristo è il Verbo di Dio, Cristo è la vita. E’ in un modo mirabile e ineffabile che egli, senza mai abbandonare o perdere se stesso, è tornato a se stesso. Per mezzo della carne, come si è detto, Dio è venuto tra gli uomini, la verità tra i menzogneri: Dio infatti è verace, mentre ogni uomo è menzognero (Rm 3, 4). E quando si è sottratto alla vista degli uomini e ha portato la sua carne là dove nessuno mentisce, egli stesso, Verbo fatto carne, per mezzo di se stesso, cioè per mezzo della carne, ha fatto ritorno alla verità che è lui stesso. Verità alla quale sempre rese testimonianza, benché fra i menzogneri, anche di fronte alla morte: se c’è stato un tempo infatti in cui Cristo è stato soggetto alla morte, mai in nessun momento ha ceduto alla menzogna.

Eccovi un esempio, alquanto diverso e molto inadeguato, che serve tuttavia per intendere in qualche modo Dio, partendo da quelle cose che più immediatamente dipendono da Dio. Ecco, io stesso, che non sono diverso da voi quanto all’anima, se taccio sto dentro di me; se invece parlo a voi in modo che mi possiate intendere, in qualche modo mi muovo verso di voi senza abbandonare me; mi avvicino a voi ma senza allontanarmi da me. Se smetto di parlare, in certo qual modo faccio ritorno a me stesso; e tuttavia rimango con voi, se voi custodite ciò che nel mio discorso avete ascoltato. Se ciò è possibile all’immagine che Dio ha creato, cosa non sarà possibile all’immagine di Dio che è Dio, non creata ma da Dio generata? Il suo corpo, per mezzo del quale è venuto a noi e nel quale da noi è ripartito, non si è disperso nell’aria come il suono delle mie parole, ma rimane là dove ormai non muore più e la morte non ha più alcun dominio sopra di lui (cf. Rm 6, 9). Forse si potevano e si dovevano dire ancora molte cose intorno a queste parole del Vangelo; ma non bisogna sovraccaricare troppo i vostri cuori di cibi spirituali, benché essi siano squisiti; soprattutto considerando che, se lo spirito è pronto, la carne invece è debole (cf. Mt 26, 41).

Essere dove è Cristo.

Egli stesso è la vita eterna, che noi raggiungeremo quando ci prenderà con sé: la vita eterna è in lui, ecco perché dobbiamo essere dove egli è.

[Cristo è la vita eterna che dobbiamo raggiungere.]

Le parole del santo Vangelo, o fratelli, potranno essere intese nel loro giusto senso, se si riesce a scoprire la loro armonia con quelle che precedono; perché, quando parla la verità, vi dev’essere pieno accordo tra ciò che precede e ciò che segue. Il Signore aveva detto: E quando sarò partito e avrò preparato un posto per voi, ritornerò e vi prenderò con me, affinché dove sono io siate anche voi; poi aveva aggiunto: E voi conoscete dove vado e la via per andarvi (Gv 14, 3-4), mostrando che le sue parole non significavano altro se non che i discepoli lo conoscevano. Nel discorso precedente abbiamo già spiegato, come abbiamo potuto, in che modo egli vada a se stesso per mezzo di se stesso, e come anche ai discepoli conceda di andare a lui per mezzo di lui. Che vuol dire con quel che aggiunge: affinché anche voi siate dove sono io? Che essi non potranno essere se non in lui. Egli è in se stesso, e poiché essi saranno dove egli è, anch’essi saranno in lui. Egli è dunque la vita eterna nella quale noi saremo, quando ci avrà preso con sé; e la vita eterna che è lui, è in lui stesso, sicché anche noi saremo dove egli è, cioè in lui. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, e la vita che egli ha non è altro che egli stesso che possiede tale vita, così ha dato al Figlio di avere la vita in se stesso (Gv 5, 26), egli stesso essendo la vita che ha in se stesso. Forse anche noi saremo la vita che egli è, allorché cominceremo ad essere in quella vita, cioè in lui? No certamente; poiché egli esistendo come vita, è ciò che ha, e siccome la vita è in lui, egli è in se stesso; noi invece non siamo la vita eterna, ma soltanto partecipi della vita di lui. E noi saremo là dove egli è, ma non possiamo essere in noi ciò che egli è, in quanto non siamo la vita, ma avremo come vita lui, il quale ha se stesso come vita, essendo egli stesso la vita. Insomma, egli è in se stesso in modo immutabile e nel Padre in modo inseparabile; noi, invece, per aver preteso di essere in noi stessi, siamo in preda al turbamento, secondo quanto dice il salmo: L’anima mia è turbata in me (Sal 41, 7). Cioè, cambiati in peggio, non siamo riusciti a rimanere nemmeno ciò che eravamo. Quando, però, per mezzo di lui, andiamo al Padre, secondo la sua parola: Nessuno viene al Padre se non per mezzo mio (Gv 14, 6), noi dimoriamo in lui, e nessuno ci potrà separare dal Padre né da lui.

Il Signore, collegando le parole seguenti con le precedenti, dice: Se aveste conosciuto me, conoscereste anche il Padre mio; cosa che equivale a quanto ha detto prima: Nessuno viene al Padre se non per mezzo mio. E aggiunge: Ora lo conoscete e lo avete veduto (Gv 14, 7). Ma Filippo, uno degli Apostoli, non comprendendo ciò che aveva sentito, dice: Signore, mostraci il Padre e ci basta. E il Signore gli risponde: Da tanto tempo sono con voi e non mi avete conosciuto, Filippo? Chi vede me vede il Padre (Gv 14, 8-9). Li rimprovera per non averlo ancora conosciuto dopo tanto tempo che era con loro. Ma non aveva detto prima: Sapete dove vado e conoscete la via? E siccome essi dicevano di non saperlo, egli non li aveva convinti, aggiungendo: Io sono la via, la verità e la vita? Come mai adesso dice: Da tanto tempo sono con voi e non mi avete conosciuto, dato che essi sapevano dove andava e conoscevano la via, appunto perché conoscevano lui che è la via? E’ facile risolvere questa difficoltà, supponendo che alcuni di loro lo conoscevano, altri, tra i quali era Filippo, non lo conoscevano; di modo che le parole: Sapete dove vado e conoscete la via, si riferiscono a quelli che sapevano, e non a Filippo, cui ora il Signore dice: Da tanto tempo sono con voi, e non mi avete, Filippo, ancora conosciuto? A coloro che già conoscevano il Figlio, fu anche detto a proposito del Padre: Ora lo conoscete e lo avete veduto. Si esprime così a motivo della perfetta somiglianza che esiste tra il Figlio e il Padre, per cui chi conosce il Figlio, che è uguale al Padre, può ben dire di conoscere il Padre. E’ quindi certo che alcuni di loro, anche se non tutti, conoscevano già il Figlio; ed erano quelli ai quali egli aveva detto: Voi sapete dove vado e conoscete la via, poiché egli stesso è la via. Ma siccome non conoscevano il Padre, egli aggiunge: Se mi conosceste, conoscereste anche il Padre mio; sì perché, per mezzo mio, conoscereste anche lui. Io sono una persona, lui un’altra. Ma affinché non lo ritenessero dissimile, dice: Ora lo conoscete e lo avete veduto. Essi vedevano il Figlio che era perfettamente simile al Padre, ma dovevano tener conto che il Padre, che essi ancora non vedevano, era tale e quale il Figlio che vedevano. E in questo senso vale ciò che poi egli risponde a Filippo: Chi vede me vede il Padre. Non dice di essere nello stesso tempo il Padre e il Figlio, che è l’errore dei sabelliani o patripassiani, e che la fede cattolica condanna, ma che il Padre e il Figlio sono talmente somiglianti che conoscendone uno si conoscono ambedue. Infatti, quando parliamo di due persone che tra loro somigliano molto, diciamo anche noi a chi ne ha vista una e vorrebbe conoscere anche l’altra: hai visto questo, hai visto quello. In questo senso egli dice: Chi vede me vede il Padre; non certo perché il Padre sia la stessa persona del Figlio, ma perché il Figlio è tanto simile al Padre che non differisce in nulla da lui. Se il Padre e il Figlio non fossero due persone distinte, non avrebbe detto: Se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio. Appunto perché nessuno viene al Padre se non per mezzo mio; se conosceste me – dice – conoscereste il Padre mio, in quanto io, che sono l’unica via per andare al Padre, vi condurrò a lui in modo che possiate conoscere anche lui. Ma siccome sono perfettamente simile a lui, conoscendo me conoscete lui; e lo avete veduto, se con gli occhi del cuore avete veduto me.

Perché dunque, Filippo, tu dici: Mostraci il Padre e ci basta? Da tanto tempo – dice – sono con voi e non mi avete ancora conosciuto, Filippo? Chi vede me vede il Padre. Se ti riesce difficile vedere questo, almeno credi ciò che non riesci a vedere. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Se hai visto me che sono perfettamente simile a lui, hai visto lui al quale io sono simile. E se non puoi vederlo, perché almeno non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? A questo punto Filippo poteva dire: Sì, vedo te, e vedo che tu sei perfettamente simile al Padre; ma è forse da rimproverare e da condannare uno che, vedendo te, desideri vedere anche colui al quale tu somigli tanto? Sì, io conosco chi gli somiglia, ma l’altro non lo conosco ancora direttamente; non mi basta, finché non avrò conosciuto anche colui al quale questo è simile; ebbene, mostraci il Padre e ci basta. Ma il Maestro rimproverava il discepolo, perché vedeva in fondo al suo cuore. Filippo desiderava conoscere il Padre come se il Padre fosse superiore al Figlio; e perciò dimostrava di non conoscere neppure il Figlio, in quanto credeva ci fosse qualcosa a lui superiore. E’ per correggere questa idea che il Signore gli dice: Chi vede me vede il Padre; come puoi dire: Mostraci il Padre? Io vedo perché lo dici; tu non chiedi di vedere colui che è simile a me, ma credi che egli sia a me superiore. Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? (Gv 14, 10). Perché vuoi trovare differenza tra due che sono simili? Perché desideri conoscere separatamente due che sono inseparabili? Prosegue, rivolgendosi non soltanto a Filippo, ma a tutti gli Apostoli; e dice cose che noi, non volendo coartarle nei limiti del poco tempo che abbiamo, preferiamo esporle, col suo aiuto, con più calma.

Chi crede in me farà anch’egli le opere che io fo; ne farà anzi di più grandi.

Il discepolo compirà opere maggiori di quelle del Signore. Tuttavia un servo non è più grande del suo padrone, né il discepolo superiore al Maestro, perché è sempre Cristo che opera ogni cosa, e senza di lui nessuno può far nulla.

Ascoltate con le orecchie e accogliete nell’anima, o dilettissimi, mediante le parole che noi vi rivolgiamo, l’insegnamento che c’imparte colui che mai si allontana da noi. Nel passo che avete sentito, il Signore dice: Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è in me, è lui stesso che agisce (Gv 14, 10). Quindi anche le parole sono opere? Certamente. Colui che edifica il prossimo con la parola compie un’opera buona. Ma che significa non vi parlo da me, se non questo: io che vi parlo non sono da me? Ciò che egli fa lo attribuisce a colui dal quale, egli che agisce, procede. Dio Padre infatti non ha origine da un altro, il Figlio invece, che pure è uguale al Padre, tuttavia è da Dio Padre. Il Padre è Dio, ma non da Dio; è luce, ma non da luce; il Figlio invece è Dio da Dio, luce da luce.

Riguardo a queste due affermazioni, delle quali una dice: Non parlo da me e l’altra dice: Il Padre, che è in me, è lui stesso che agisce, ci attaccano due opposti movimenti ereticali: i quali, basandosi su una soltanto delle due e volendo tirarle in direzioni contrarie, sono usciti fuori della via della verità. Gli ariani infatti dicono: Ecco che il Figlio non è uguale al Padre, in quanto egli non parla da sé. I sabelliani, cioè i patripassiani, al contrario dicono: Ecco che il Padre e il Figlio sono la medesima persona; che significa infatti: Il Padre, che è in me, compie le opere, se non: io che opero rimango in me? Sostenete cose contrarie; ma non come il vero è contrario al falso, bensì come due cose false contrarie tra loro. Avete sbagliato ambedue andando in direzioni opposte: la via che avete abbandonato sta in mezzo. Vi siete separati tra di voi con una distanza maggiore di quella che esiste tra ciascuna delle vostre vie e la giusta che avete abbandonato. Voi da una parte e voi dall’altra, venite qui entrambi; non passate gli uni dalla parte dell’altro, ma venendo a noi da una parte e dall’altra ritrovatevi insieme. Voi, sabelliani, riconoscete colui che negate; voi, ariani, riconoscete uguale colui che abbassate nei confronti dell’altro e camminerete con noi sulla via retta. C’è qualcosa che ciascuno di voi può raccomandare all’altro. Sabelliano, ascolta: La persona del Figlio è talmente distinta da quella del Padre che l’ariano sostiene che il Figlio non è uguale al Padre. Ariano, ascolta: Il Figlio è tanto uguale al Padre che il sabelliano sostiene che sono la medesima persona. Tu, sabelliano, aggiungi ciò che hai tolto, e tu, ariano, riporta all’uguaglianza ciò che hai abbassato, ed entrambi convenite con noi; poiché né tu devi eliminare, per convincere il sabelliano, colui che è una persona distinta dal Padre, né tu abbassare, per convincere l’ariano, colui che è uguale al Padre. Ad entrambi il Signore grida: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10, 30). Gli ariani tengano conto che egli dice una cosa sola, i sabelliani tengano conto che egli dice siamo; e non si rendano ridicoli, i primi negando l’uguaglianza di natura, i secondi negando la distinzione delle persone. E se poi l’affermazione: Le parole che io dico non le dico da me, vi fa pensare che il suo potere è limitato, tanto che non può fare ciò che vuole, tenete conto dell’altra sua affermazione: Come il Padre resuscita i morti e li fa vivere, così anche il Figlio fa vivere chi vuole (Gv 5, 21). Così, se la sua affermazione: Il Padre, che è in me, compie le opere, vi fa pensare che il Padre e il Figlio non sono due persone distinte, tenete presente l’altra sua affermazione: Quanto il Padre fa, il Figlio similmente lo fa (Gv 5, 19); e concludete che non si tratta di una sola persona menzionata due volte ma di una natura in due persone. E siccome uno è uguale all’altro, in modo tuttavia che uno ha origine dall’altro, perciò il Figlio non parla da sé, perché non è da sé; e perciò è il Padre a compiere in lui le opere, poiché colui per mezzo del quale e col quale il Padre agisce non è se non dal Padre. Infine il Signore aggiunge: Non credete che io sono nel Padre e il Padre è in me? Se non altro, credetelo a motivo delle mie opere (Gv 14, 11-12). Prima aveva rimproverato solo Filippo, adesso invece fa vedere che non era solo lui a meritare il rimprovero. A motivo delle opere credete che io sono nel Padre e il Padre è in me; e infatti, se fossimo separati, non potremmo in alcun modo operare inseparabilmente come facciamo.

[Cristo promette che farà opere maggiori delle sue.]

Vediamo ora di capire quello che segue: In verità, in verità vi dico: chi crede in me farà anch’egli le opere che io faccio; ne farà, anzi, di più grandi, perché io vado al Padre e qualunque cosa chiederete in nome mio la farò. Affinché il Padre sia glorificato nel Figlio, se domanderete qualche cosa nel mio nome io la farò (Gv 14, 12-14). Annuncia quindi che sarà lui a compiere queste opere più grandi. Non s’innalzi il servo al di sopra del Signore, né il discepolo al di sopra del Maestro (cf. Gv 13, 16): egli dice che i discepoli faranno opere più grandi di quelle fatte da lui, ma è sempre lui che agirà in essi e per mezzo di essi; non essi da se medesimi. E’ per questo che a lui si canta: Ti amo, Signore, mia forza (Sal 17, 2). Ma quali sono queste opere più grandi? Forse perché, al loro passaggio, bastava la loro ombra a guarire gli infermi (cf. At 5, 15)? E’ cosa più grande infatti operare guarigioni con l’ombra del corpo invece che con la frangia del mantello (cf. Mt 14, 36). Nel primo caso era lui direttamente che operava la guarigione, nel secondo caso era lui per mezzo dei discepoli, ma nel primo come nel secondo caso era sempre lui ad agire. In questo suo discorso, però, egli si riferisce all’opera della sua parola; infatti disse: Le parole che io vi dico non le dico da me, ma il Padre, che è in me, compie le sue opere. Di quali opere intendeva parlare se non di queste, cioè delle parole che diceva? I discepoli ascoltavano e credevano in lui, e la loro fede era il frutto di quelle parole. Ma quando i discepoli cominciarono ad annunciare il Vangelo, non credettero soltanto poche persone come appunto erano loro, ma popoli interi: queste sono, senza dubbio, opere più grandi. E’ da notare che non dice: Voi farete opere più grandi di queste, come se soltanto agli Apostoli fosse concesso di farle, ma: Chi crede in me – egli dice – farà anch’egli le opere che io faccio, anzi, di più grandi. Dunque, chiunque crede in Cristo fa le opere che Cristo fa, anzi di più grandi? Non sono cose, queste, da trattarsi di passaggio, né frettolosamente e superficialmente; ma dovendo ormai chiudere questo discorso, siamo costretti a rimandare il commento.

Ne farà di più grandi, perché io vado al Padre.

Il discepolo compirà opere maggiori perché Cristo va al Padre. Che Cristo compia per mezzo di chi crede in lui, opere maggiori di quelle compiute da lui direttamente, non è segno di debolezza ma di condiscendenza.

Non è facile intendere e penetrare il significato delle parole del Signore: Chi crede in me farà anch’egli le opere che io faccio; se non che, a queste parole già così difficili, il Signore ne aggiunge altre, ancor più difficili da comprendere: E farà cose ancor più grandi di queste (Gv 14, 12). Che vuol dire? Non riuscivamo a trovare chi potesse fare le opere che Cristo ha fatto; troveremo chi ne farà di più grandi? Ma nel discorso precedente dicevamo che era un miracolo più grande guarire gli infermi, al proprio passaggio, solamente con l’ombra del corpo, come fecero i discepoli (cf. At 5, 15), che guarirli col contatto, come fece il Signore (cf. Mt 14, 36); e che molti di più credettero alla predicazione degli Apostoli che non alla voce del Signore. Ma dicevamo anche che queste opere son da considerare più grandi, non nel senso che il discepolo sia più grande del Maestro, o il servo superiore al Signore, o il figlio adottivo da più del Figlio unigenito, o l’uomo da più di Dio; ma perché quegli stesso, che altrove dice ai discepoli: Senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5), si è degnato compiere per mezzo di loro opere più grandi. Egli infatti, per tralasciare altri innumerevoli esempi, senza aiuto da parte dei discepoli creò loro stessi, senza di loro fece questo mondo; e poiché si è degnato farsi uomo, ha fatto anche se stesso senza di loro. Essi invece, che cosa hanno fatto senza di lui, se non il peccato? Per di più, anche qui ha subito eliminato una difficoltà che ci poteva turbare. Dopo aver detto: Chi crede in me farà anch’egli le opere che io faccio; ne farà, anzi, di più grandi, subito ha aggiunto: perché vado al Padre e qualunque cosa chiederete in nome mio la farò (Gv 14, 12-14). Prima ha detto farà, ora dice farò, come a dire: Non vi sembri ciò impossibile; non potrà infatti essere più grande di me chi crede in me, ma allora sarò io che farò cose più grandi di quanto ho fatto ora. Per mezzo di chi crede in me, farò cose più grandi di quelle che ho fatto da me senza di lui. Tuttavia sono sempre io che opero, senza di lui o per mezzo di lui. Quando opero senza di lui, egli non fa niente, mentre quando opero per mezzo di lui, anche lui fa le opere, anche se non le compie da se stesso. Compiere per mezzo di colui che crede opere più grandi che senza di lui, non è da parte del Signore una limitazione ma una degnazione. Come potranno infatti i servi ricambiare il Signore per tutti i benefici che loro ha concesso? (cf. Sal 115, 12). Soprattutto quando, tra gli altri benefici, si è degnato di concedere loro anche quello di compiere, per loro mezzo, cose più grandi di quelle che ha compiuto senza di loro. Forse non si allontanò triste da lui quel ricco, che era andato a chiedere consiglio sul come ottenere la vita eterna (cf. Mt 10, 16-22)? Ascoltò e non tenne conto del consiglio. E tuttavia il consiglio, non seguito da quel tale, fu poi seguito da molti quando il Maestro buono parlò per bocca dei discepoli. Le sue parole furono disprezzate dal ricco che egli aveva esortato direttamente, e furono invece ben accolte da coloro che egli fece diventare poveri per mezzo di poveri. E così il Signore ha compiuto, attraverso la predicazione di quanti in lui credevano, opere più grandi di quelle che fece di persona rivolgendosi a quanti ascoltavano direttamente la sua parola.

[Anche il credere in Cristo, è opera di Cristo.]

Già è sorprendente che abbia compiuto opere più grandi per mezzo degli Apostoli; tuttavia egli non dice: “Farete anche voi le opere che io faccio e ne farete anzi di più grandi”, riferendosi soltanto a loro; ma volendo includere quanti appartengono alla sua famiglia, egli dice: Chi crede in me farà anch’egli le opere che io faccio; ne farà, anzi, di più grandi. Se dunque chi crede farà tali opere, chi non ne farà significa che non crede. Un caso analogo offrono le parole del Signore: Chi mi ama, osserva i miei comandamenti (Gv 14, 21); per cui chi non li osserva, vuol dire che non lo ama. Così altrove dice: Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia (Mt 7, 24); chi dunque non è simile a questo uomo saggio, o ascolta le parole del Signore senza metterle in pratica o non le ascolta neppure. Come pure dice: Chi crede in me anche se è morto vivrà (Gv 11, 25); chi dunque non vive è senz’altro perché non crede. Altrettanto vale per la frase: Chi crede in me farà: vuol dire che chi non farà le opere, non crede. Che vuol dire questo, fratelli? Forse che non è da annoverare tra i credenti in Cristo chi non fa opere più grandi di quelle che egli fece? Se non è ben compreso, un simile discorso è duro, assurdo, inammissibile e intollerabile. Ascoltiamo dunque l’Apostolo che dice: A chi crede in colui che giustifica l’empio, quella fede gli viene attribuita a giustizia (Rm 4, 5). Con questa opera noi compiamo le opere di Cristo, perché lo stesso credere in Cristo è opera di Cristo. E’ opera sua in noi, ma non senza di noi. Ascolta ancora, e cerca di comprendere: Chi crede in me farà anch’egli le opere che io faccio; cioè prima sono io che faccio, poi anche egli farà, cioè io faccio affinché egli possa fare. E quale opera io faccio? Faccio sì che da peccatore diventi giusto.

E farà opere più grandi di queste. Più grandi di quali, ti prego? Forse chi con timore e tremore attende all’opera della sua salvezza (cf. Fil 2, 12), compie opere più grandi di quelle compiute da Cristo? E’ certamente Cristo che opera in lui, ma non senza di lui. Starei per dire che questa opera è più grande del cielo e della terra, e di tutto ciò che in cielo e in terra si vede. Il cielo e la terra, infatti, passeranno (cf. Mt 24, 35), mentre la salvezza e la giustificazione dei predestinati, di coloro cioè che egli ha preconosciuto, rimangono in eterno. Nel cielo e nella terra vi è soltanto l’opera di Dio, mentre in questi vi è anche l’immagine di Dio. Ma in cielo, i Troni e le Dominazioni, i Principati e le Potestà, gli Angeli e gli Arcangeli sono anch’essi opera di Cristo: forse che compie opere ancor più grandi di queste colui che concorre all’opera che Cristo compie in lui per la sua eterna salvezza e giustificazione? Non oso a questo riguardo pronunciare un giudizio che sarebbe affrettato; intenda chi può, giudichi chi può, se è opera più grande creare i giusti o giustificare gli empi. Se ambedue le opere richiedono pari potenza, certo la seconda richiede maggiore misericordia. Infatti, E’ questo il grande mistero della pietà, che fu manifestato nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu predicato alle nazioni, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria (1 Tim 3, 16). Niente ci obbliga a credere che in queste parole: farà opere anche più grandi di queste, siano comprese tutte le opere di Cristo. Forse ha detto di queste, intendendo quelle che faceva in quel momento. E in quel momento egli esponeva le parole della fede, cioè compiva quelle opere delle quali prima aveva detto: Le parole che io vi dico non le dico da me, ma il Padre, che è in me, compie le sue opere (Gv 14, 10). In quel momento le sue opere erano le sue parole. E certamente è opera minore predicare le parole di giustizia, cosa che egli fece senza di noi, che non giustificare gli empi, cosa che egli fa in noi in modo che anche noi la facciamo. Resta da cercare in che senso si deve intendere la frase: Qualunque cosa chiederete in nome mio la farò. Il fatto che molte preghiere rimangono inesaudite, pone una difficoltà piuttosto seria; ma, siccome è tempo ormai di porre termine a questo discorso, mi si consenta un po’ di respiro per esaminare e poi affrontare tale difficoltà.

(S.Agostino, Commento al Vangelo di S.Giovanni, n° 67-72)

 

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